Platone – o chi per lui – diceva che “Chi racconta le storie governa la società.” Mai come oggi questa affermazione è vera, e non perché i racconti siano ormai monopolio di chatbot e algoritmi (anche se sarebbe un esperimento mentale interessante). Il punto cruciale è un altro: la frizione tra le diverse storie che vengono raccontate sull’AI dipende moltissimo da chi le racconta. E il bello è che queste narrative, pur contraddittorie, coesistono nella stessa bolla informativa, ognuna con un’agenda più o meno nascosta.
Questa dinamica non è nuova nella Silicon Valley, dove il controllo della narrazione è sempre stato un elemento chiave della strategia delle big tech. Steve Jobs diceva che “Le persone non sanno cosa vogliono finché non glielo mostri”, una frase che sintetizza perfettamente la filosofia dietro molte delle narrative che oggi plasmano il discorso sull’AI. Andiamo a vedere i principali storyteller di questa nuova rivoluzione.
I costruttori di modelli AI: tra utopie e fumo negli occhi
Le aziende che sviluppano i modelli di AI vendono due storie opposte, a seconda del pubblico:
- Quando parlano della loro tecnologia: “Nessuna paura, l’utopia AI è dietro l’angolo!” L’intelligenza artificiale salverà il mondo, curerà malattie, ci renderà tutti più produttivi e felici. Ovviamente, lasciateci solo qualche miliardo di finanziamento in più per migliorarla.
- Quando parlano della loro forza lavoro: “Stiamo ottimizzando la cultura aziendale per la velocità e l’innovazione” (traduzione: sì, stiamo licenziando umani per rimpiazzarli con AI, ma vogliamo farlo sembrare un miglioramento).
Questa doppia narrazione è perfettamente in linea con la tradizione della Silicon Valley, che ha sempre venduto sogni mentre dietro le quinte massimizzava i profitti. Marc Andreessen, il venture capitalist dietro Netscape e ora uno dei principali evangelisti dell’AI, ha recentemente scritto un manifesto intitolato “Why AI Will Save the World”, un capolavoro di storytelling tecno-ottimista che sembra uscito da un pitch di un’azienda del 1999.
I costruttori di applicazioni AI: il canto del licenziamento
Le aziende che costruiscono applicazioni basate su AI hanno una narrativa molto più pragmatica: “Stop hiring humans!”. Il messaggio è chiaro e senza troppi fronzoli: vuoi ridurre i costi? Usa le nostre soluzioni AI per eliminare il personale.
Questo è un trend che risale agli albori della Valley. Nel 2011, Marc Benioff, CEO di Salesforce, dichiarava che “Le aziende devono diventare più agili” – che in gergo Silicon Valley significa meno dipendenti e più automazione. Oggi, le startup AI stanno portando questo concetto all’estremo, con aziende come OpenAI e Anthropic che sviluppano strumenti sempre più avanzati per rimpiazzare creativi, sviluppatori e analisti.
Le aziende che usano l’AI: efficienza a doppio taglio
I grandi utenti dell’AI nelle aziende giocano invece su un sottile equilibrio tra ottimismo e freddo calcolo economico:
- “L’AI renderà i nostri dipendenti più veloci, più produttivi e più efficienti… a un costo inferiore.”
Questa retorica risale agli anni d’oro dell’outsourcing tecnologico. Nel 2001, Eric Schmidt, allora CEO di Google, affermava che “La tecnologia non sostituisce i lavoratori, li rende più efficienti”. Lo stesso concetto viene oggi riciclato per giustificare l’adozione massiccia dell’AI nelle aziende. Ma la storia recente insegna che, quando una tecnologia permette di fare lo stesso lavoro con meno persone, i licenziamenti non tardano ad arrivare.
I governi che vogliono dominare l’AI: geopolitica e isteria da supremazia
Le potenze mondiali, soprattutto USA, Cina e UE, vedono l’AI come il nuovo campo di battaglia tecnologico. La loro narrativa è semplice e ossessiva:
- “MUST. NOT. LOSE. RACE.”
Qui la retorica ricorda la corsa agli armamenti digitali degli anni ’80 e ’90, quando gli Stati Uniti e il Giappone si sfidavano per il dominio dell’industria dei semiconduttori. Oggi la minaccia è la Cina, che ha dichiarato apertamente di voler diventare leader mondiale nell’AI entro il 2030.
Peter Thiel, co-fondatore di PayPal e noto stratega della Silicon Valley, ha detto che “La competizione è per i perdenti” – un mantra che ha alimentato la mentalità dei giganti dell’AI e che oggi sta influenzando anche le politiche governative. Non si tratta più solo di innovazione, ma di potere geopolitico, con governi che cercano di controllare l’AI come asset strategico.
L’AI racconta storie… ma di chi?
E poi ci sono i modelli di AI stessi, che assorbono e rilanciano queste narrative senza alcun filtro critico. I Large Language Models non “scelgono” le storie da raccontare, semplicemente amplificano quelle più popolari e rumorose. Questo significa che le agende nascoste di chi controlla la narrativa vengono interiorizzate dai modelli stessi, che diventano strumenti di propaganda involontaria.
È un meccanismo che ricorda il concetto di “reality distortion field” di Steve Jobs: le persone credono alla narrativa più convincente, non necessariamente a quella più vera. Se chi costruisce i modelli domina la narrazione e chi usa l’AI non ha strumenti critici per distinguere i messaggi, finiremo in un mondo dove la verità non è più una questione di fatti, ma solo di chi ha il megafono più potente.