Non serve un esperto di geopolitica monetaria per capire che quando il dollaro va giù, qualcosa scricchiola nel tempio dorato delle Big Tech. Non si tratta solo di una dinamica macroeconomica da manuale da primo anno di economia, ma di un’onda lunga che rischia di travolgere margini, guidance e peggio ancora la propensione al rischio di chi finanzia l’innovazione.

Dall’annuncio dei dazi di Trump, il dollaro si è infilato in una spirale discendente, toccando i minimi dal 2022. Ma quello che a prima vista potrebbe sembrare una manna per le esportazioni USA si sta rivelando, per il settore tech, una lama a doppio taglio. Perché se è vero che un dollaro più debole rende i prodotti americani più competitivi all’estero, è altrettanto vero che le multinazionali del software e dell’hardware fatturano in decine di valute diverse e poi riportano in dollari. Tradotto: ogni euro o yen incassato vale meno sulla bilancia finale.

Meta Platforms ha già lanciato l’allarme. Microsoft ha seguito a ruota. Durante le recenti call sugli utili, il tema FX (foreign exchange) è salito prepotentemente nei discorsi degli executive, che per una volta non hanno potuto coprirsi dietro AI, cloud e innovazione esponenziale. I conti trimestrali raccontano una storia meno scintillante, in cui il cambio sfavorevole erode margini e in alcuni casi porta a tagliare stime di crescita che fino a ieri sembravano scolpite nella pietra.

E poi ci sono le startup, quelle che ancora devono diventare dei colossi. Per loro la faccenda è ancora più cinica. Molti fondi VC iniziano a tirare il freno a mano. Il denaro non è più cheap come ai tempi dello ZIRP (zero interest rate policy) e un dollaro ballerino aggiunge una dose extra di incertezza. I round si chiudono con più difficoltà, i burn rate vengono rivisti al ribasso, e anche i founder più visionari devono cominciare a fare i conti con la cassa prima che con la disruption.

L’effetto domino è subdolo. Un dollaro debole penalizza la reportistica finanziaria. La reportistica fiacca deprime le aspettative. Le aspettative depresse tagliano gli investimenti. E gli investimenti tagliati rallentano l’innovazione. È il loop perfetto per un settore che ha costruito il suo mito sull’iper-crescita, sulla leva finanziaria e sull’illusione che la tecnologia sia un bene rifugio, indipendente dal contesto macro.

Ma la realtà, come spesso accade, è meno poetica. L’economia globale si sta ri-frammentando, e i tassi di cambio stanno tornando ad essere un’arma geopolitica, più che un parametro economico. Il tech non è più immune. È diventato sistema. E come tale, vulnerabile.