Non è un’idea, è un test. Un crash test per capire fino a che punto si possa trasformare la politica economica in una derivata seconda del venture capital. Masayoshi Son, il visionario borderline che ha già bruciato e reinventato miliardi con la disinvoltura di un illusionista, questa volta punta a qualcosa di ancora più grande: un fondo sovrano ibrido USA-Giappone, una creatura da 300 miliardi di dollari. Ma dietro la facciata apparentemente infrastrutturale, c’è una strategia molto più sporca, molto più elegante, e molto più pericolosa: prendere il controllo della prossima ondata tecnologica globale, bypassando i mercati pubblici e, soprattutto, le regole.
La proposta – riportata dal Financial Times con l’aria sospetta di chi sa più di quanto scrive – si presenta come una sinergia virtuosa. Ma è, in realtà, un’operazione chirurgica sul cuore stesso dell’economia occidentale: il Tesoro americano. Non uno stake passivo. Non un fondo “a partecipazione” come lo intendono i pensionati. No. Qui si parla di co-governance tra Stati e una mente privata che ha già dimostrato di poter affondare unicorni e IPO come birilli da bowling.
In apparenza, Son offre una soluzione fiscale alternativa: fare soldi senza alzare le tasse. Fa gola. Il Tesoro USA annaspa tra debito pubblico insostenibile, rendimenti dei Treasury drogati, e una Fed che alterna psicofarmaci monetari a colpi di frusta. Inserire una fonte “profittevole” come un fondo sovrano tech-infrastrutturale, cofinanziato anche da investitori retail, sembra magia macroeconomica. Ma in realtà è una piattaforma di potere algoritmico con asset class geopolitica.
Perché il Giappone? Perché è la perfetta spalla del ventriloquo. Una banca centrale già zombificata, un governo che gioca ancora al “capitalismo amministrato”, e una fame di tecnologie strategiche (AI, semiconduttori, energia post-fossile) che lo rende il complice ideale per costruire un veicolo finanziario-ibrido che possa agire ovunque: nei consorzi 5G, nei corridoi infrastrutturali Indo-Pacifici, nei data center delle aree rurali USA, nella riconfigurazione delle supply chain.
Un fondo da 300 miliardi è un Golem. E Son sa bene che la dimensione è la nuova ideologia. SoftBank ha già giocato questa carta con il Vision Fund, vendendolo come un catalizzatore tech. Ma questa volta, il gioco è più sottile. Non si parla solo di startup. Si parla di ricostruire la nuova ossatura dell’Occidente, con una logica da fondo sovrano, ma l’agilità del private equity e l’opacità del venture strategico.
La trovata retorica più astuta? Consentire anche ai retail investors americani e giapponesi di partecipare. Come se fosse un ETF patriottico. Come se non fosse, invece, un modo per creare una narrativa collettiva attorno a un’entità che sarà, di fatto, decisamente elitaria e opaca. Una specie di “Amazon della finanza pubblica”, dove si comprano e vendono porzioni di futuro industriale e tecnologico, ma solo alcuni hanno il codice sorgente.
E nel frattempo, dietro le quinte, i ministeri delle finanze di Tokyo e Washington osservano, annuiscono, e probabilmente si chiedono quanto margine abbiano ancora prima che la tecnocrazia trasformi la governance economica in un’interfaccia da cliccare.
Scott Bessent, nuovo volto del Tesoro americano, è uomo troppo intelligente per non sapere cosa rappresenti davvero questo progetto. Non è un fondo. È un vettore. Di potere, di influenza, di standard tecnologici, e di controllo sui flussi di innovazione futuri. Tutto in nome della sicurezza nazionale, della competitività strategica, e della sacra alleanza USA-Giappone. Ma con dentro una cabina di regia che sa già chi userà gli strumenti finanziari come joystick geopolitico.
Una curiosità degna di nota: Son e Trump si conoscono personalmente. Trump ha sempre avuto un debole per i miliardari che sembrano usciti da un anime cyberpunk. Non è escluso che questa proposta sia stata seminata proprio negli anni in cui la politica industriale americana era uno slogan, non un piano. Ma ora, nel pieno della guerra dei chip, della verticalizzazione AI, e del decoupling selettivo con la Cina, il terreno è fertile. Molto più fertile del previsto.
E allora eccoci qui: con un’idea che si finge istituzionale, ma è un algoritmo di consolidamento del potere privato. Travestito da cooperazione bilaterale. Venduto come progresso fiscale. Ma scritto con il linguaggio silenzioso dei data lake, delle leve a 20x, e delle strategie di dominio indiretto che piacciono tanto agli architetti del “capitalismo definitivo”.
Sarà mai approvato? Difficile dirlo. Ma la semplice esistenza di questa proposta cambia la conversazione. Rende obsoleti i think tank, spiazza i mercati pubblici, e costringe la politica a riscrivere il significato stesso di “interesse nazionale”.
“Ciò che non puoi tassare, faglielo comprare”, avrebbe detto Machiavelli se fosse nato nel Nasdaq.