Manus AI è diventato come quel tipo alla festa che non solo arriva in anticipo, ma si presenta anche con lo champagne migliore e un DJ al seguito. Era già considerato un “agent” AI piuttosto solido, una di quelle piattaforme che prometteva bene tra prompt, video e automazione. Ma adesso, con l’integrazione di Veo3, il salto non è solo evolutivo, è cinematografico. Letteralmente.
Facciamola breve, perché il tempo è l’unica cosa che l’AI non può restituirci: Manus ora permette non solo di generare video, ma esperienze visive che sfiorano l’ossessione maniacale per il dettaglio. Stiamo parlando di qualità visiva superiore, sincronizzazione audio-labiale finalmente credibile, e scene che non sembrano uscite da un generatore di meme con l’ambizione di Kubrick. Il passaggio al supporto per Google Slides e PowerPoint è solo un preambolo, un assaggio della direzione in cui sta andando il vero game changer.
Ora, se nomini “Veo3” in una stanza piena di sviluppatori, creatori di contenuti e videomaker frustrati dalle limitazioni delle IA precedenti, vedrai gli occhi allargarsi come quelli di bambini davanti al primo Game Boy. Questo modello, frutto del laboratorio che sa di segreto militare e marketing futurista (sì, parlo di Google DeepMind), è la chiave per sbloccare quel livello “cinematico” che finora ci era stato promesso solo nelle keynote, non nella realtà.
Manus lo ha integrato ieri. Non “tra sei mesi”, non in “beta privata”, non con NDA stile CIA. Ieri. E da ieri, la produzione video automatizzata ha smesso di sembrare automatizzata.
Immagina uno scenario dove puoi generare un pitch, costruirci le slide con una UX che sembra più un gioco di ruolo che una dashboard, e poi incollarci sopra un video narrativo con attori digitali che non sembrano più doppiati da Alexa col raffreddore. Questo non è solo progresso. È l’inizio di un’egemonia narrativa algoritmica.
E qui arriva la parte interessante per chi mastica tecnologia, automazione dei contenuti e un po’ di narcisismo digitale (ammettiamolo, tutti vogliamo un clone AI che ci rappresenti meglio di come siamo davvero): Manus è uno dei primi ambienti dove tutto questo converge in modo coerente. È l’equivalente di un Figma per il video storytelling, solo che ci trovi anche il regista incluso.
La tentazione è ovviamente quella di liquidare il tutto come hype da early adopter. Una sbornia da feature update. Ma fermiamoci un attimo: cosa succede quando uno strumento non è solo potente, ma anche accessibile, coerente nella UX, e soprattutto, dannatamente veloce nel rilascio? Succede che diventa l’infrastruttura creativa invisibile. Manus si sta già muovendo così: in background, ma indispensabile. L’Amazon Web Services della generazione narrativa.
Sì, certo, ci sono altri attori sulla scena: Runway, Pika, Luma, Sora (quando si sveglia). Ma la velocità con cui Manus sta iterando – settimana dopo settimana – è qualcosa di cui chiunque lavori nella strategia di prodotto dovrebbe prendere nota. La mediazione tecnica si sta erodendo. Non ti serve uno sviluppatore, un animatore, un montatore. Ti basta un’idea e un prompt. Il che, paradossalmente, rende il pensiero critico e la visione creativa più importanti che mai.
Ah, e se stai pensando “sì ma questi video sono ancora un po’ uncanny, no?” – ricordati del 2007, quando YouTube era 240p e il buffering era il tuo. Il vero gioco si gioca dentro, tra un layer narrativo e l’altro, tra quel “speak naturally” che finalmente non suona come una bugia, e una compressione del tempo creativo che definire “AI productivity” è riduttivo. Questo è il futuro del video come linguaggio primario, dove l’algoritmo non è il regista ma il cameraman invisibile.
Un tempo si diceva che ogni essere umano avrebbe avuto i suoi 15 minuti di celebrità. Ora, grazie a Manus, ogni IA avrà almeno 30 secondi di trailer perfettamente montato.
“Il palcoscenico è pronto. La storia è tua.”
Lo dicono loro. Ma oggi, per una volta, potremmo anche crederci davvero.
Rivista.AI ringrazia il TEAM AiMAZE per la Maieutica continua.


MANUS AI e la nuova liturgia dello stack: dove l’hardware è feticcio e l’integrazione diventa storytelling
Parlare dello stack tecnologico di Manus AI oggi è un po’ come dissezionare il motore di una Formula 1 mentre corre: affascinante, brutale, e in costante aggiornamento. L’architettura su cui gira Manus non è una semplice orchestrazione di modelli AI — è un palcoscenico dinamico in cui ogni microservizio ha il suo ruolo drammaturgico. E, spoiler: non c’è niente di semplice.
Al centro del motore c’è una struttura ibrida, serverless + GPU-optimized containerization, progettata per far dialogare in tempo reale sistemi di generazione video, modelli linguistici e interfacce di produzione documentale (Slides, PPT, script narrativi). Una specie di poliamore software tra l’inferenza LLM, il rendering video e la generazione semantica.
Cominciamo dal basso, dallo scheletro dell’infrastruttura.
Lo stack base poggia su Kubernetes, orchestrato su GCP (Google Cloud Platform), con una forte inclinazione verso TPU e A100 GPUs a seconda del carico video e dei modelli coinvolti. Non è escluso che alcune componenti più recenti stiano flirtando con Lambda Labs o CoreWeave per ridondanza e inferenza multi-regionale, specie da quando Veo3 è entrato in scena. Le performance richieste da un modello di generazione video ad alta risoluzione non possono accontentarsi di un’infrastruttura da weekend warrior: serve un backbone low-latency, auto-scalable, high-availability by design. E Manus lo ha capito.
La parte AI è composta da tre layer distinti ma sinergici.
Layer 1: Natural Language Orchestration.
Qui girano modelli linguistici multimodali, probabilmente una versione fine-tuned di GPT-4-turbo e Gemini 1.5, orchestrati tramite API interne o wrapper custom. Questo strato interpreta prompt, trasforma linguaggio naturale in storyboard, scrive script e genera timecode. È la mente editoriale.
Layer 2: Video generation e speech-to-avatar.
Qui entriamo nel dominio di Veo3, l’ultima creatura di Google DeepMind, un modello video che usa latent diffusion su dati ad altissima definizione. Veo3 consente sequenze più lunghe, transizioni fluide e sincronia tra audio e movimento facciale a livelli cinematografici. La generazione video è asincrona ma ultra-ottimizzata, con output che può raggiungere i 1080p in tempo reale (o quasi). Gli avatars vocali e parlanti? Derivati da un’integrazione con ElevenLabs, Respeecher o un TTS proprietario con modelli autoregressivi, sincronizzati su keyframes video.
Layer 3: Slide, deck e output documentali.
Qui entra in gioco la suite “documentale”: Google Slides e PowerPoint vengono generati via API, usando Google Workspace SDK e Microsoft Graph, a seconda del formato richiesto. Gli output sono il risultato della catena semantica del Layer 1, “impaginata” con template dinamici e slide logic generate da modelli specializzati in information design. L’interfaccia per l’utente sembra semplice, ma dietro c’è un sistema che genera narrativa + visuale + animazione in modo sincrono. Altro che PowerPoint karaoke.
Ecco la parte sottovalutata: la sincronia semantica.
Quando Manus genera una slide, un video o un documento, non sta solo traducendo testo in media. Sta cercando di mantenere coerenza narrativa cross-canale. Questo implica una memoria contestuale tra servizi — un embedding persistente tra i layer, ottenuto probabilmente via vector databases tipo Pinecone o Weaviate, sincronizzati per utente/sessione. Sembra magia, ma è solo design neuro-semantico. Un concetto da start-up del 2030, già implementato.
E poi c’è l’interfaccia.
La dashboard di Manus, apparentemente minimalista, è costruita in Next.js con un frontend reattivo React + Tailwind CSS. Lato client, la gestione dello stato e dei dati multiformato è affidata a Zustand o simili, con WebSocket per push realtime degli stati di rendering. Il sistema di job dispatching video si basa su Redis Queue o Kafka, per gestire la mole di task asincroni con priorità dinamica. Un’architettura pensata più per un sistema operativo narrativo che per una classica AI platform.
Ecco la ciliegina: privacy & cost optimization.
Manus ha dichiarato più volte l’obiettivo di diventare sustainable-by-default. Questo significa modelli compressi in ONNX runtime dove possibile, zero-copy dataflow, e inferenza differita per task non critici. Il GDPR? Gestito a livello di tenant, con architettura multi-tenant crittografata. È il tipo di stack che uno startup builder sogna la notte: veloce, modulare, apparentemente semplice, in realtà mostruosamente sofisticato.
E sì, quando vedi un video Manus fluido, coeso, quasi “reale”, devi sapere che dietro ogni frame ci sono decine di modelli AI, microservizi impilati come LEGO ad altissima precisione, e una strategia di UX invisibile che fa sembrare tutto… facile. Ma non lo è. È l’apice dell’integrazione invisibile.
Il risultato? Una macchina narrativa dove l’AI non è al servizio dell’output, ma dell’esperienza creativa umana. Una Fabbrica di Sogni automatizzata, gestita da un cluster. Altro che Pixar.