Adobeha alzato il sipario sull’ennesima incarnazione del suo modello linguistico generativo, un LLM tagliato su misura per i marketer digitali, in un tentativo palese — e vagamente disperato — di tenere il passo nel carnevale sempre più affollato dell’intelligenza artificiale generativa. L’obiettivo dichiarato è quasi lirico nella sua semplicità: aiutare i professionisti del marketing a monitorare il traffico AI-related e migliorare la search engine optimization. Come dire: “Vogliamo che Google si accorga di noi… ma anche no.”
Eppure, dietro questo annuncio levigato da keynote, si nasconde una dinamica più interessante — e meno rassicurante. Adobe, un colosso storico dell’enterprise software, si sta reinventando come una bottega alchemica dove il contenuto generativo incontra i sacri algoritmi del search intent. Ma c’è qualcosa di intrinsecamente paradossale nel lanciare un modello linguistico con la pretesa di ottimizzare la SEO, in un’epoca in cui Google stesso sta decostruendo la SEO come l’abbiamo sempre conosciuta.
Benvenuti nell’era post-SEO, dove persino il termine search engine optimization suona un po’ arcaico, come parlare di modem a 56k nel 2025.
Il nuovo modello — che Adobe non ha ancora battezzato con un nome abbastanza memorabile da superare la soglia del buzz — si posiziona come un assistente semi-onnisciente per i content strategist, capace di analizzare quali contenuti vengono effettivamente generati da AI e come questi performano nel caotico campo di battaglia della visibilità online. In teoria, dovrebbe permettere alle aziende di adattarsi in tempo reale alle dinamiche del contenuto generativo e intercettare i segnali SGE di Google prima che questi si trasformino in algoritmi punitivi o nell’invisibilità organica.
Ma chiariamo subito un punto: Adobe non sta cercando di costruire un modello conversazionale come GPT o Claude. Sta, piuttosto, cercando di fare da interprete tra l’umano e la macchina, tra il marketer e il crawler. In sostanza, un medium algoritmico tra il linguaggio naturale e la logica di ranking che muta più spesso del meteo in Islanda.
Il tempismo non è casuale. Google ha ormai ufficialmente avviato la transizione verso un sistema di risposta generativa alle ricerche (SGE, Search Generative Experience), che minaccia di rendere irrilevanti il 70% dei contenuti costruiti secondo i canoni SEO degli ultimi 10 anni. Il contenuto “per l’utente” si fonde con quello “per l’AI”, e la vecchia distinzione tra keyword stuffing e storytelling diventa improvvisamente un anacronismo.
Adobe lo sa, e reagisce nel modo più prevedibile: costruendo un sistema per sorvegliare, adattare e — diciamolo — manipolare la produzione AI-based. Il modello promette di aiutare le aziende a capire quali contenuti vengono effettivamente riconosciuti (e premiati) da Google SGE, quali segnali semantici attivano visibilità, e come aggirare elegantemente le soglie del penalizzabile. In altre parole: reverse-engineering della search experience, mascherato da “ottimizzazione”.
Ironico, vero? Adobe, che fino a ieri ci vendeva Photoshop e Premiere come strumenti per creativi umani, oggi ci propone un algoritmo per capire meglio altri algoritmi. È come se Stradivari vendesse strumenti per l’accordatura delle IA.
Eppure, il problema vero non è tecnologico. È strategico. Il nuovo modello di Adobe nasce all’interno di un ecosistema chiuso, tipicamente enterprise, pensato per clienti che vivono ancora nell’illusione che la visibilità online sia una funzione dell’ottimizzazione. Ma in un mondo dominato da SGE e modelli AI-first, la visibilità non si ottimizza. Si simula. Si predice. Si genera direttamente. Il contenuto non compete per rankare, ma per essere assunto da altri modelli generativi. È un cambio di paradigma epistemico.
C’è qualcosa di stanco, di nostalgico, nel modo in cui Adobe cerca di inserire intelligenza artificiale nel flusso di lavoro del content marketing. Mentre altri player (OpenAI, Anthropic, Perplexity) stanno ridefinendo cosa significa creare contenuti, Adobe sembra voler semplicemente addestrare meglio le vecchie strutture. Come un vigile urbano che cerca di gestire il traffico in una città dove ormai si vola.
Certo, il mercato ha reagito con il solito aplomb: “azioni frazionalmente in rialzo”, come si legge nei dispacci finanziari. Un modo elegante per dire che nessuno sa davvero come valutare questa mossa. E chi può biasimarli? Adobe è ancora forte nei fondamentali, ma sempre più in ritardo nei fondamentali del futuro.
In fondo, questo nuovo LLM potrebbe anche funzionare. Potrebbe aiutare un brand medio a capire che la sua strategia SEO è morta e che forse è il caso di farla resuscitare in un’altra forma, più conversazionale, più immersiva, più AI-native. Ma sarà uno strumento di transizione, non di rivoluzione. Come un esoscheletro per chi ancora non ha imparato a camminare nell’era del contenuto sintetico.
Nel frattempo, Google continua a cambiare le regole, OpenAI scrive le domande prima delle risposte e Adobe cerca di vendere dashboard alle streghe del marketing.
“Ogni epoca ha i suoi alchimisti,” scriveva Baudrillard, “ma gli alchimisti digitali sono gli unici che vendono piombo facendolo passare per metallo leggero.”
Nel caso di Adobe, è un piombo ottimizzato per la SEO.