Altro che mestiere, altro che sudore, estasi o ispirazione notturna. Quello che accade oggi nelle profondità delle piattaforme di streaming musicale non è un’evoluzione, ma un’occupazione sistematica. Secondo i dati più recenti forniti da Deezer, una delle piattaforme francesi più rilevanti ma con un occhio sempre più rivolto all’ecosistema globale, circa il 18% delle canzoni caricate ogni giorno sarebbe interamente generato da software di intelligenza artificiale. Tradotto in termini brutali: 20.000 brani al giorno, sfornati senza alcuna interazione umana, partoriti da algoritmi addestrati su milioni di opere preesistenti. Siamo passati dalla penna all’algoritmo, dalla melodia al prompt.
Mentre Spotify e Apple Music si tengono diplomaticamente alla larga dal pronunciare la parola “etichettatura”, Deezer ha deciso di affrontare il problema frontalmente, iniziando a taggare i brani generati artificialmente. Non tanto per colpevolizzare, ci tengono a dire, ma per “garantire trasparenza”. Il CEO Alexis Lanternier, in perfetto stile da comunicato aziendale, ha dichiarato che “l’intelligenza artificiale non è intrinsecamente positiva o negativa”, ma che serve “un approccio responsabile per mantenere la fiducia tra pubblico e industria”. Una fiducia che, è bene dirlo, è già sull’orlo di una crisi identitaria.
Il punto non è più tanto se l’IA possa essere creativa, quanto piuttosto chi sta guadagnando da questa creatività sintetica. Ed è qui che l’ironia si fa tragica: oggi i brani generati con IA rappresentano appena lo 0,5% del catalogo totale di Deezer, ma crescono con una rapidità tale da suggerire una colonizzazione imminente. Ancora più inquietante, però, è che secondo i dati interni dell’azienda il 70% di questa produzione ha uno scopo fraudolento. Sì, fraudolento. Non stiamo parlando di esperimenti accademici o remix nerd: parliamo di veri e propri tentativi di gonfiare i flussi, generare entrate fasulle, scalare le classifiche manipolando il sistema. In molti casi, queste tracce vengono rimosse. In altri, sopravvivono con un’etichetta di avvertimento, come una sigaretta digitale che ti dice che “nuoce gravemente all’industria musicale”.
Questo è solo il primo capitolo. Secondo uno studio commissionato dalla Cisac (Confederazione internazionale delle società di autori e compositori) insieme a PMP Strategy, a cui ha collaborato anche Deezer, l’impatto dell’intelligenza artificiale sull’industria musicale sarà devastante nei prossimi anni. Entro il 2028, si stima che i ricavi globali della musica possano subire un colpo del 25%, con una perdita annua di oltre 4 miliardi di euro. Più che una previsione, un necrologio annunciato. La causa? La progressiva diluizione del valore economico del lavoro umano, sostituito da modelli generativi che producono senza fermarsi mai, senza chiedere compensi, diritti, contratti. Nessun ego, nessun tour da organizzare. Solo codice.
E mentre l’industria tenta di correre ai ripari, la resistenza arriva dagli artisti stessi, stanchi di essere ridotti a dataset. Una lettera aperta firmata da oltre 250 musicisti statunitensi (ma non solo), pubblicata da organizzazioni come Artist Rights Alliance e Human Artistry Campaign, lancia un appello quasi disperato contro l’uso non autorizzato delle loro opere per addestrare i modelli di IA generativa. Tra i firmatari compaiono nomi pesanti: Billie Eilish, Nicki Minaj, Pearl Jam, R.E.M., Mumford & Sons, Katy Perry, Elvis Costello. Non esattamente i soliti nostalgici del vinile. “Le aziende più potenti del mondo stanno usando senza permesso il nostro lavoro per alimentare l’intelligenza artificiale che poi viene impiegata per competere direttamente con noi”, recita il testo della lettera. “Per molti musicisti che cercano solo di sopravvivere, questo è catastrofico”.
Il cuore del problema, come sempre, è la remunerazione. L’IA non solo imita, ma satura. Ogni nuova traccia artificiale abbassa il valore medio delle canzoni in catalogo. Il risultato è una tempesta perfetta: royalties in caduta libera, valore percepito prossimo allo zero, e una narrativa dominante che parla ancora di “democratizzazione” della creatività, come se moltiplicare a dismisura gli input fosse automaticamente un bene. Il paradosso è evidente: mai nella storia della musica ci sono state così tante canzoni disponibili, e mai così pochi artisti hanno potuto vivere di musica.
A questo si aggiunge un altro aspetto oscuro, spesso ignorato: l’addestramento degli LLM musicali si basa su contenuti protetti da copyright. Non esiste ancora una regolamentazione chiara su come queste opere vengano utilizzate. Alcune aziende tech parlano di “uso equo”, altre si rifugiano dietro cavilli giuridici, ma la verità è che interi cataloghi discografici sono stati triturati da modelli senza alcuna licenza. Il concetto di proprietà intellettuale, già malconcio, rischia di diventare un accessorio del passato.
Nel frattempo, le piattaforme di streaming navigano in acque torbide. Da un lato, il rischio reputazionale: promuovere musica generata da IA potrebbe far scappare gli utenti affezionati, quelli che ancora vogliono “sentire l’anima” dietro una voce. Dall’altro, però, il vantaggio economico è troppo allettante: zero costi di produzione, zero contratti, margini totali. Se la musica generativa riesce a trattenere l’utente per qualche minuto in più, tanto basta per giustificare il compromesso.
C’è poi l’effetto placebo sull’ascoltatore. L’utente medio, come dimostrano recenti studi condotti da università come la New York University e il Berklee College of Music, non distingue più tra una traccia umana e una generata da IA. L’orecchio si adatta, anestetizzato da anni di pop algoritmico e produzioni compresse. La “qualità” si appiattisce, e con essa la capacità critica. In fondo, se tutto suona come qualcosa che hai già sentito, non ti chiedi più da dove viene. Lo ascolti e basta. E Spotify ringrazia.
Nel mezzo di questo far west, qualcuno prova a erigere barricate. La UK Music, organismo britannico che rappresenta gli interessi dell’industria musicale nel Regno Unito, ha pubblicato un documento chiamato “Music Industry AI Code of Practice”, nel tentativo di definire delle linee guida etiche sull’uso dell’intelligenza artificiale nel processo creativo. Ma siamo ancora nel campo dei buoni propositi, mentre le major – Universal in primis – iniziano a firmare accordi con startup IA per “valutare opportunità”. Il lupo che sorveglia le pecore, insomma.
L’illusione romantica dell’artista solitario, che scrive canzoni con la chitarra in un appartamento affacciato su Londra o Nashville, è oggi una cartolina vintage. Il presente è fatto di modelli autoregressivi, sampling automatizzato e musica senza autore. Una playlist infinita che non emoziona, ma funziona. Che non racconta, ma intrattiene. Un rumore di fondo algoritmico, utile solo a tenerti lì. A scrollare ancora. A pagare l’abbonamento. A dimenticare che, un tempo, dietro una canzone c’era una persona.