Se la storia recente dell’innovazione tecnologica fosse una collezione di prime pagine, Meta sarebbe una specie di Daily Mail in versione californiana: titoloni gridati, promesse roboanti, immagini patinate e una certa allergia per la verifica dei fatti. Dopo aver occupato per mesi le colonne del New York Times e del Financial Times con la messianica visione del metaverso, l’azienda di Zuckerberg ha deciso di riscrivere la narrazione, ancora una volta. Nel 2021, l’annuncio sembrava un’inchiesta d’apertura dell’Economist sulla nuova frontiera dell’esistenza digitale. Oggi, nel 2025, Horizon Worlds è più simile alla cronaca di una ghost town, degna del Guardian nella sua vena più compassata: abbandonata, vuota, eppure misteriosamente ancora sovvenzionata.

A quanto pare, Meta non ha imparato dal proprio passato in stile USA Today: headline accattivanti, ma contenuto in saldo. Zuckerberg ha solo cambiato palcoscenico. Il nuovo spettacolo si chiama “AI per tutti”, e non si risparmia in retorica da pagina A1: superintelligenza, modelli avanzati, empatia simulata, un “nuovo capitolo per l’umanità”. Roba da far impallidire perfino gli editoriali moralisti del Times di Londra. Nel memo interno che lancia l’ennesima svolta, si leggono frasi che sembrano estratte da un discorso al Parlamento europeo, con l’aggiunta di emoji.

Eppure, a differenza del metaverso, questa volta qualche colonna positiva su The Wall Street Journal Meta se l’è guadagnata. Più di un miliardo di utenti mensili stanno già interagendo con strumenti AI nel suo ecosistema. Gli ingegneri interni usano tool per automatizzare codice e debugging. Alcuni utenti si affezionano davvero ai personaggi virtuali. A quanto pare, c’è un mercato per la solitudine confezionata in HD. Una specie di Black Mirror con un’interfaccia di Messenger.

Ma se guardiamo con occhio da redattore del Washington Post, sotto la superficie scintillante le contraddizioni sono in bella vista. I modelli continuano a inventare dati, a fallire test logici da scuola media, a inciampare in giochi a informazione perfetta. L’“era della superintelligenza” assomiglia più a una versione beta dell’Independent: interessante, promettente, ma ancora indecisa su cosa vuole diventare.

La strategia editoriale di Meta ormai è chiara: ogni stagione una nuova copertina. Il metaverso come “nuovo internet” è fallito? Nessun problema, si passa al prossimo trend, come un quotidiano economico che, quando le azioni crollano, cambia il titolo e rilancia con un editoriale ottimista. Ora è il turno dell’AI, con un vocabolario preso in prestito direttamente da The Atlantic e infarcito di citazioni pseudo-filosofiche. Zuckerberg non parla più solo di prodotti, ma di identità, relazioni, umanità. Una fusione tra il tono da guru della Harvard Business Review e il misticismo da sezione “Mindfulness” del Guardian.

Nel frattempo, i numeri giustificano tutto: il capitale fluisce, gli stipendi volano, le assunzioni si fanno selettive come un fellowship del MIT Technology Review. Dietro questa mossa, c’è la consueta operazione di maquillage reputazionale: rebranding per attirare talenti, per sedurre gli investitori, per cavalcare l’ondata mediatica. È la stessa logica che muove certi tabloid inglesi: gonfiare una notizia per occupare spazio, generare reazioni, dominare la conversazione anche quando i fatti sono vacillanti. “Meta lancia AI rivoluzionaria” ha lo stesso valore informativo di “Nuova cura miracolosa contro l’invecchiamento” in prima pagina sul Sun.

Ecco dove la parabola di Meta assume contorni quasi parodistici. L’azienda che voleva cambiare il mondo con visori da 400 euro ora promette l’epoca post-umana con chatbot empatici. E lo fa con lo stesso tono con cui il New York Post lancia un’allerta su topi giganti a Manhattan. In mezzo, la sostanza tecnologica è ancora confusa, le capacità computazionali limitate, e la cosiddetta intelligenza è perlopiù una mimesi statistica della conversazione umana. Di fatto, si vende eloquenza sintetica per sapienza. Il pubblico, abituato ormai a titoli clickbait da BuzzFeed, abbocca volentieri.

Eppure, sarebbe troppo facile liquidare il tutto come un circo da ufficio stampa. Perché la verità, quella che starebbe bene in un’inchiesta del New Yorker, è che queste manovre funzionano. I mercati reagiscono, i media rilanciano, i talenti accorrono. Non importa se la visione è realizzabile, conta se è affascinante. L’AI è perfetta per questo teatro: è invisibile, promette tutto, non ha ancora limiti regolamentari, e soprattutto si presta a essere mitizzata. È la nuova “storia del secolo”, come direbbero gli editorialisti di Politico.

Nel frattempo, Meta continua a collezionare iniziative incomplete, interfacce a metà, esperimenti sociologici mascherati da funzionalità. È un laboratorio permanente che somiglia sempre più a un’agenzia stampa, con l’unica differenza che il pubblico non legge, scrolla. E in questo, Zuckerberg ha colto l’essenza del momento: chi controlla il feed, controlla il futuro. Almeno finché il pubblico non si stanca, o finché The Guardian non pubblica un’inchiesta sui danni psicologici dell’attaccamento agli avatar AI.

Ciò che resta, alla fine, è un’azienda che agisce come un giornale finanziario sotto steroidi: ridefinisce il mondo ogni tre mesi, cambia lessico come si cambia headline, e alterna promesse di apocalisse e salvezza con la disinvoltura di un editorialista stanco. Il metaverso era la rivoluzione. Ora è l’AI. Domani sarà qualcos’altro. Ma finché i titoli sono buoni e le slide hanno abbastanza grafici in gradient blu, lo show può continuare.