Uno dei problemi dei titoli delle leggi americane è che sembrano usciti da un romanzo di fantascienza scritto da uno stagista del marketing sotto acido. “One Big Beautiful Bill Act”, ad esempio, suona come il nome di una sitcom degli anni ’90. Ma dietro la patina comica e l’enfasi trumpiana si nasconde qualcosa di meno divertente: un’espansione fiscale titanica mascherata da patriottismo economico, pronta a esplodere come una bomba a orologeria finanziaria. La Camera dei Rappresentanti ha appena approvato questa legge con un margine tanto risicato quanto sintomatico: 218 voti contro 214. Tradotto, significa che persino alcuni repubblicani hanno cominciato a leggere il manuale di istruzioni del Titanic mentre la nave prende acqua.
La legge prevede un aumento delle spese per la sicurezza dei confini e la difesa, una mossa che sembra sempre vincente nei sondaggi interni, ma soprattutto rende permanenti i tagli fiscali del 2017, già all’epoca giudicati regressivi, inefficaci e fiscalmente irresponsabili. Ma il vero cuore pulsante del problema è un altro: il disinvolto rialzo del tetto del debito federale di 5 trilioni di dollari, un passo oltre rispetto ai 4 trilioni originariamente previsti. È un po’ come dare una carta di credito illimitata a un tossicodipendente da deficit: prima o poi la banca in questo caso il mondo intero potrebbe decidere di chiudere i rubinetti.

Il debito pubblico statunitense ha già raggiunto i 36,2 trilioni di dollari, di cui oltre 7,2 sono detenuti da governi stranieri. Il nuovo pacchetto legislativo aggiungerà altri 4,1 trilioni entro il 2034, portando il rapporto debito/PIL al 127%. Per contestualizzare: i Paesi che solitamente superano questa soglia si trovano in prossimità di crisi del debito o hanno già ricevuto telefonate dalla Troika. Gli Stati Uniti, però, sono un caso speciale. O lo erano. Perché quando anche Moody’s notoriamente più lenta di un bradipo ubriaco ti toglie la tripla A, significa che il castello di carte comincia a vacillare.
Il problema centrale non è solo la quantità di debito, ma l’illusione persistente che il dollaro possa continuare a essere considerato un bene rifugio in un mondo multipolare, frammentato e digitalizzato. Lo dice chiaramente Raymond Yeung di ANZ: “Gli investitori stavano già diversificando i rischi prima ancora che il disegno di legge passasse”. Non è una novità. La dedollarizzazione non è più una teoria complottista di qualche think tank moscovita. È una tendenza sistemica, visibile nei dati. Cina, India, Russia, ma anche economie medie stanno riducendo l’esposizione a dollari e titoli del Tesoro, non solo per ragioni economiche ma anche geopolitiche. La protezionismo trumpiano, la weaponisation del dollaro e le sanzioni finanziarie come strumento primario di diplomazia hanno fatto il resto.
Ray Dalio, fondatore di Bridgewater e uno che di cicli economici se ne intende, ha messo il punto esclamativo su questa farsa contabile con una previsione quasi biblica: o ci saranno tagli dolorosi alla spesa e aumenti di tasse “inimmaginabili”, oppure si aprirà la stagione della stampa selvaggia di moneta, con la conseguente distruzione del valore reale del dollaro. Tradotto: la Fed dovrà scegliere se punire i detentori di bond o distruggere la domanda interna. In entrambi i casi, l’America pagherà un prezzo. E con lei, chiunque abbia scommesso sulla solidità dell’asset più liquido del pianeta.
Non sorprende quindi che il Committee for a Responsible Federal Budget – un nome che sembra partorito da Orwell in una giornata no – abbia definito questa legge “la più costosa, disonesta e irresponsabile mai vista”, il tutto in mezzo a una situazione fiscale già allarmante. Ma gli effetti non saranno solo numerici. Questo tsunami contabile avrà ripercussioni profonde anche sui tassi d’interesse, sulla curva dei rendimenti e sulle dinamiche macro-globali.
Huatai Securities e China Galaxy Securities, due colossi della finanza cinese, non hanno usato mezzi termini: l’illusione che gli Stati Uniti abbiano il controllo del proprio deficit è “frantumata”. Quando la Cina dice che l’imperatore è nudo, forse è il momento di verificare se davvero indossa ancora i pantaloni. Il rischio concreto è che la struttura dei tassi americani venga sconvolta, con un’ulteriore impennata dei premi a lungo termine e la destabilizzazione del mercato obbligazionario. E quando il mercato dei Treasury vacilla, vacilla anche il sistema nervoso centrale della finanza globale.
Gary Ng di Natixis ha aggiunto un ulteriore elemento che pochi analisti stanno considerando: questa euforia fiscale potrebbe dare a Trump un momentaneo vantaggio nei negoziati commerciali. Se l’economia americana regge nel breve, può permettersi di fare il bullo con Pechino o Bruxelles. Ma è una strategia kamikaze. Perché ogni leverage usato oggi sul fronte geopolitico si trasforma in un deficit di fiducia domani. E fiducia è l’unica vera valuta che ancora regge il valore del dollaro, non certo la crescita strutturale o la disciplina fiscale.
Nel frattempo, Jerome Powell alla guida della Fed ha il volto di un chirurgo che sa che l’operazione è persa ma deve comunque tenere la mano ferma. La linea ufficiale rimane quella dell’equilibrio: supportare la crescita, contenere l’inflazione e stabilizzare i mercati. Ma il vero nodo, che la Fed non può dichiarare apertamente, è che non esiste più una politica monetaria neutrale quando il Congresso stampa trilioni come fossero caramelle. Ogni taglio ai tassi diventa una stampella politica, ogni aumento un atto di guerra contro la Casa Bianca. È il paradosso finale: la banca centrale più potente del mondo è prigioniera della schizofrenia fiscale di Washington.
E poi c’è Elon Musk, che come al solito non perde l’occasione per tirare uno schiaffo alla narrativa ufficiale con una battuta su X che vale più di cento editoriali: “Stiamo stampando dollari più velocemente di quanto io possa costruire razzi. E i razzi, almeno, hanno una traiettoria chiara”. Sotto l’ironia c’è una verità che brucia: anche il simbolo dell’innovazione americana comincia a mettere in discussione il modello economico che lo ha fatto diventare l’uomo più ricco del mondo. Musk non è un economista, ma capisce perfettamente la dinamica fondamentale: quando il debito cresce più in fretta della produttività, l’unico atterraggio possibile è d’emergenza.
La verità è che siamo entrati nell’era della doppia illusione: da un lato il sogno americano della crescita infinita drogata dal debito, dall’altro la favola che il dollaro possa sopravvivere a qualsiasi abuso istituzionale solo per la forza dell’abitudine. Ma come ci insegna ogni crisi finanziaria, le abitudini cambiano in fretta quando iniziano a costare care. La corsa alla dedollarizzazione potrebbe accelerare non per ragioni ideologiche, ma per semplice razionalità economica. E in un mondo dove anche la Svizzera ha deciso di mollare il franco forte, pensare che gli altri si aggrapperanno al dollaro come unica àncora di salvezza è il vero atto di fede.
L’ironia tragica di tutto questo? Che chi ha promosso il “One Big Beautiful Bill” lo ha fatto con l’obiettivo dichiarato di portare “certezza e stabilità”. In realtà, ha aperto una nuova era di instabilità sistemica e incertezza valutaria. L’America sta giocando alla roulette fiscale con una pistola carica e ogni giro del tamburo avvicina lo sparo. Ma stavolta il proiettile potrebbe colpire anche il resto del mondo. Perché quando crolla la fiducia nel dollaro, non ci sono safe haven, solo rifugi temporanei.