Quando si parla di Italia e tecnologia, la prima immagine che affiora è quella di un Paese genuflesso di fronte al futuro, sempre pronto a rincorrerlo con un fiatone normativo e un’andatura da maratoneta disidratato. È quasi un luogo comune dire che siamo in ritardo: lo siamo sul digitale, sull’AI, sull’alfabetizzazione tecnologica di massa, sulle infrastrutture cognitive. Ma ciò che sorprende, in questo scenario, è che a marcare un’accelerazione netta non siano i soliti innovatori della Silicon Valley in salsa tricolore, né le startup visionarie che spuntano come funghi nel sottobosco del venture capital, ma proprio lei: la Camera dei Deputati.
Sì, avete letto bene. Il Parlamento italiano, spesso percepito come la roccaforte dell’immobilismo procedurale, si sta muovendo con una rapidità e una lucidità che smentiscono qualsiasi pregiudizio. In una fase in cui il governo annaspa tra disegni di legge incagliati e un dibattito pubblico che ha la profondità di un tweet, Montecitorio sta plasmando un laboratorio di intelligenza artificiale applicata alle istituzioni, senza nascondersi dietro a retoriche vuote o a dichiarazioni di principio. Lo fa con metodo, ascolto, e una dose non trascurabile di coraggio politico.
Per una volta, l’Italia istituzionale non è un utilizzatore tardivo, ma un soggetto attivo nella ridefinizione delle regole del gioco. E questo fa tutta la differenza del mondo.
Il cuore pulsante di questa rivoluzione si chiama Comitato per la Documentazione. Nome grigio, attività esplosiva. Presieduto da una parlamentare che ha avuto il buon senso di non farsi abbagliare dall’hype tecnologico, il Comitato ha saputo costruire un percorso trasversale, aperto, resistente alla tentazione dell’ideologizzazione. Qui non si gioca la solita partita tra entusiasti e luddisti, tra tecnofili e tecnofobi, ma qualcosa di più complesso e strategico: il tentativo di definire un ruolo per le istituzioni nel tempo della generative AI.
La Camera non si limita a utilizzare i LLM come strumenti di efficienza burocratica. Ne fa, piuttosto, un banco di prova per l’intelligenza aumentata, intesa come estensione delle capacità umane, non come loro surrogato. È un’impostazione che rovescia la narrazione mainstream, quella per cui ogni salto tecnologico sarebbe inevitabilmente disumanizzante. Qui si sperimenta partendo da un presupposto chiaro: se l’intelligenza artificiale non può essere fermata, allora dev’essere orientata. E per orientarla, servono visione, regole, e soprattutto responsabilità.
Il progetto si articola in tre prototipi, che saranno presentati ufficialmente il 9 luglio. Il primo, battezzato con sorprendente eleganza “Norma”, è pensato per assistere l’amministrazione parlamentare nella redazione di documenti complessi. Il secondo, molto più spinoso, si propone di affiancare i deputati nella scrittura di emendamenti e testi legislativi. Il terzo, “DepuChat”, è la scommessa più audace: una chatbot istituzionale, capace di restituire al cittadino un accesso diretto, trasparente e comprensibile alle informazioni parlamentari.

A chi storce il naso pensando all’ennesimo giocattolo digitale da esibire nelle conferenze stampa, vale la pena ricordare che qui si parla di accountability, non di marketing. DepuChat, infatti, nasce con una missione precisa: contrastare l’opacità informativa, restituire comprensibilità alle decisioni pubbliche, e rendere il cittadino partecipe del processo democratico attraverso un’interfaccia conversazionale affidabile e auditabile. Sembra poco? È, in realtà, una bomba a orologeria sotto l’inerzia istituzionale.
Il rischio, ovviamente, è sempre quello dell’allucinazione algoritmica. Come ha saggiamente osservato il Nobel Giorgio Parisi, l’AI ha un talento tutto suo per mentire con garbo. Il problema non è tecnico, è etico. La risposta della Camera, in questo caso, è ineccepibile: dati solo ufficiali, modelli open source, validazione continua, trasparenza radicale. Non basta, ma è un inizio. E soprattutto è una dichiarazione d’intenti che vale più di mille slide patinate.
Sul secondo prototipo, quello dedicato all’aiuto ai parlamentari, si è detto e scritto molto, spesso con toni ironici. C’è chi ha immaginato un Parlamento popolato da cloni digitali, chi ha scherzato sul fatto che gli emendamenti li scriverebbero ormai i bot. Ma la verità è un’altra, ben più sobria e ambiziosa: usare l’intelligenza artificiale per rafforzare la qualità legislativa. Per evitare ambiguità, sovrapposizioni, incongruenze testuali. In una parola: per fare meglio quello che oggi si fa, troppo spesso, male.
Questo non è un dettaglio. È una rivoluzione epistemologica. Perché affermare che un AI possa contribuire a rendere una norma più chiara, più leggibile, più coerente significa riconoscere che il linguaggio della legge non è affare esclusivo dei giuristi, ma anche dei tecnologi. E che l’accessibilità normativa è una condizione di cittadinanza, non un vezzo da tecnocrati.
Il primo prototipo, Norma, lavora su documenti come il Rapporto sulla legislazione. Potenzia, non sostituisce. Aiuta, non decide. Funziona come un esoscheletro semantico, restituendo agli umani il compito di discernere. È la quintessenza dell’intelligenza aumentata: un sistema che migliora la performance cognitiva senza derubare l’intenzione politica. Un amplificatore della competenza, non del potere.
Infine, c’è il piano culturale, il più sottovalutato e il più decisivo. Tutto questo nasce da un ascolto profondo e interdisciplinare. Non solo tecnici, ma anche filosofi, giuristi, eticisti. Perché l’AI non è solo codice, è narrazione, antropologia, ideologia. È una lente attraverso cui ripensare il rapporto tra sapere e potere, tra istituzione e cittadino. Ed è qui che la Camera ha mostrato una maturità sorprendente: scegliendo di non ridurre l’AI a gadget, ma trattandola come un affare di Stato.
Lo ha fatto con un approccio lento, quasi artigianale, che rifugge l’urgenza performativa del marketing politico. Ha rinunciato all’effetto annuncio per puntare su una progettazione che ha il passo lungo della strategia, non il fiato corto della propaganda. E questo, in un Paese in cui la tecnologia è spesso trattata come un alibi o come un feticcio, è già una notizia.
Resta un’ultima, fondamentale considerazione. Il fatto che il Parlamento si sia mosso in modo tanto lucido quanto coraggioso non assolve il governo dal suo ritardo. Anzi, lo rende ancora più evidente. A quindici mesi dalla presentazione del disegno di legge sull’intelligenza artificiale, l’Italia non ha ancora una cornice normativa chiara. E mentre Montecitorio sperimenta, l’esecutivo tentenna. Come se la questione potesse essere lasciata in sospeso, in attesa che qualcun altro – Bruxelles, magari – decida per noi.
Ma le regole non arrivano per delega. O le scriviamo noi, o ce le scriveranno altri. E chi scrive le regole, lo sappiamo bene, decide anche il perimetro della sovranità. Ecco perché il lavoro della Camera è tanto più importante: perché dimostra che è possibile – anzi, necessario – governare la transizione tecnologica dall’interno delle istituzioni. Non subirla, non rincorrerla, non abbellirla a posteriori. Ma anticiparla, guidarla, plasmarla.
Questo è il compito che ci attende. Non perché l’AI sia buona o cattiva in sé, ma perché il modo in cui scegliamo di usarla dirà molto di noi. Del nostro coraggio, della nostra lucidità, della nostra capacità di pensare il futuro non come un accidente, ma come un progetto. E se quel futuro passa – sorprendentemente – da un’aula parlamentare, allora forse c’è speranza. O, per citare con ironia involontaria il nome del chatbot sperimentale: DepuChat, finalmente, parla la nostra lingua. Ma ci ascolta anche?
Le assemblee rappresentative nell’era dell’intelligenza artificiale” a cura di Davide De Lungo e Giovanni Rizzoni.

Si tratta di una raccolta di saggi che esplorano i profili costituzionali dei cambiamenti in atto, con particolare attenzione alle implicazioni dell’intelligenza artificiale. Un tema di indubbio interesse per molte ragioni.
Di Seguito presentazione
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