
Un tempo c’erano i prompt, le risposte brillanti e un florilegio di contenuti generati per stupire il pubblico e sfamare gli algoritmi di engagement. Poi è arrivato il 2025 e Forbes ha buttato all’aria il salotto buono dell’intelligenza artificiale. Nella sua settima edizione, la classifica AI 50 non premia più chi sa parlare, ma chi sa lavorare. È l’inizio di una nuova era, quella in cui l’AI non è più un maggiordomo digitale ma un’operaia specializzata, infaticabile, ipercompetente. Addio chiacchiere, benvenuti flussi di lavoro automatizzati.
Chi ha vissuto l’epoca d’oro dei chatbot ricorda il fascino ipnotico di conversare con una macchina. Era come scoprire che un frigorifero poteva scrivere poesie. Il problema, naturalmente, è che le poesie non pagano le fatture. Forbes lo ha capito. E ha tracciato una nuova mappa dell’ecosistema AI: 50 aziende, divise in categorie che riflettono un’evoluzione darwiniana feroce, spinta dalla pressione del mercato e dalla maturazione del capitale tecnologico. Nessuna promessa vuota, solo soluzioni concrete.
Nel regno delle applicazioni consumer dominano i nuovi demiurghi del contenuto: Midjourney, Pika, SUNO. Hanno preso il controllo dell’immaginario digitale, generando immagini, video, audio con una facilità che fa impallidire le produzioni hollywoodiane. Non si tratta più di “strumenti creativi”, ma di fabbriche cognitive con algoritmi al posto degli operai. A valle di questa produzione infinita, la distinzione tra creatività umana e sintesi algoritmica si è dissolta come un vecchio copyright.
Sul fronte della produttività, i soliti noti: ChatGPT, Claude, DeepL, Perplexity. Ma attenzione: non sono più giocattoli conversazionali o motori di risposta. Sono diventati collaboratori silenziosi, assistenti integrati in processi aziendali, strumenti che non si limitano a rispondere ma eseguono, suggeriscono, ottimizzano. L’AI come coworker, non più come intrattenimento.
Passando al settore enterprise verticale, le cose si fanno serie. Difesa, sanità, servizi professionali. Qui le startup non vendono API simpatiche o demo per stupire gli investitori: vendono vantaggio competitivo, sicurezza nazionale, diagnosi salvavita. Vannevar Labs ha portato l’AI nel cuore delle operazioni militari. Abridge ha convinto l’industria medica che trascrivere, interpretare e correlare dati clinici è lavoro da macchina, non da medico. Luminance, con il suo approccio da “Panel of Judges”, mostra come anche l’intelligenza artificiale possa avere una toga e fare causa comune con la giurisprudenza. Siamo passati dal prompt engineering al contract engineering.
Poi ci sono gli dèi dell’infrastruttura. Anthropic, Cohere, Mistral AI, OpenAI, Sakana.ai: nomi che stanno al di sotto della superficie visibile dell’AI come i motori a fusione sotto il ponte dell’Enterprise. Forniscono i modelli fondamentali, i LLM, i ragionatori neurali che permettono tutto il resto. È come parlare dei server nei primi anni di internet: invisibili, ma onnipotenti. Attorno a loro orbitano i fabbricanti di ferraglia digitale: NVIDIA, AMD, Intel, SambaNova. Senza la loro potenza computazionale, l’intelligenza artificiale non esiste. La carne è debole, ma i chip sono forti.
Nel frattempo, una nuova razza di startup si sta facendo largo a colpi di automazione e dati. Cursor e Codium aiutano gli sviluppatori a scrivere codice come se fossero direttori d’orchestra davanti a un’orchestra di neuroni. VAST Data si propone come la colonna vertebrale della gestione dati nell’era dell’AI: non solo un data lake, ma una diga che governa un fiume in piena di informazioni.
La robotica, che per anni è sembrata la cenerentola delle AI conference, si è presa la sua rivincita. Figure, SKILD AI, World Labs stanno trasformando l’astrazione in interazione fisica. Macchine che camminano, manipolano oggetti, apprendono come neonati e agiscono come veterani. Non c’è più il confine netto tra AI e robotica, solo un continuum tra pensiero e azione meccatronica.
E poi ci sono loro, i nuovi agenti aziendali, quelli che non timbrano il cartellino ma lo digitalizzano. Decagon guida la trasformazione della customer experience con agenti conversazionali talmente evoluti da farti pensare che lo human-in-the-loop sia una perdita di tempo. In molte aziende, il customer support umano è diventato un backup. E non è una battuta.
La lista AI 50 2025 non è solo un termometro del mercato, ma un sismografo. Registra le scosse profonde di un cambiamento sistemico. Due anni dopo il “momento ChatGPT”, la sbornia da hype ha lasciato spazio a un hangover produttivo. Le aziende non vogliono più meraviglie, vogliono ritorni. E questa lista è un manifesto di ROI algoritmico.
La diversificazione settoriale, evidente nell’infografica che Forbes ha costruito come un puzzle di precisione, dimostra che l’AI non è più un settore. È una condizione. Ogni industry che non integra un modello, un agente, una pipeline neurale, si prepara all’obsolescenza. E questo non è un futuro ipotetico: è cronaca.
Il passaggio dalla generazione alla risoluzione è la vera svolta. Generare testo, immagini o codice era solo il preludio. Oggi l’obiettivo è chiudere il loop, completare il task, prendere decisioni autonome. Non è solo questione di GPT, ma di RPA intelligente, di strumenti che leggono un documento, estraggono i dati, li interpretano, li inseriscono in un CRM, rispondono al cliente e aggiornano l’analisi predittiva. Tutto senza passare dal via, o meglio: senza passare dal middle management.
La nuova era dell’intelligenza artificiale è quella della concretezza. Chi non ha un modello AI embedded nei propri processi entro fine 2025 sarà irrilevante entro il 2026. Le 50 aziende scelte da Forbes sono l’avanguardia di questo nuovo darwinismo digitale, dove sopravvive non il più forte ma il più automatizzato. In un contesto dove l’AI è sempre meno strumento e sempre più architettura operativa, parlare di “startup” suona quasi ironico. Sono nuovi ministeri dell’efficienza, nuove burocrazie senza burocrazia, nuove multinazionali prima ancora di essere scalate.
È finita l’era del “guarda cosa sa fare questa AI”. Inizia quella del “chi fa ancora le cose a mano?”.