
C’è una bugia ben educata che ci raccontiamo sull’intelligenza artificiale: che sia universale, democratica, accessibile. Basta un’idea brillante e una connessione a internet, giusto? Sbagliato. Oggi la vera valuta dell’intelligenza artificiale non è l’algoritmo, né il talento. È la potenza di calcolo. E su quel fronte, il mondo non è solo diviso: è spaccato come una lastra di ghiaccio sottile sotto il peso di un futuro che pochi potranno davvero controllare.
Nel servizio pubblicato da NYT News Service il 29 giugno 2025 (ripreso anche da Economic Times), si evidenzia come:
• “Only 32 countries, or about 16% of nations, have these large facilities filled with microchips and computers… US and Chinese companies operate over 90% of the data centres that other companies and institutions use for AI work… Africa and South America have almost no AI computing hubs”
Soltanto 32 paesi al mondo, appena il 16%, possiedono data center specializzati per AI. Tradotto: oltre 150 nazioni, dal Vietnam alla Nigeria, dal Perù alla Serbia, non hanno accesso locale all’infrastruttura minima per allenare o eseguire un modello decente di intelligenza artificiale. Non parliamo di AGI o GPT-5, parliamo anche solo di Llama 2. Se non hai GPU di fascia alta, raffreddamento adeguato, energia elettrica abbondante e tecnici specializzati, non stai nemmeno partecipando alla gara. Sei lo spettatore al bordo della pista, con il biglietto strappato.
Mentre OpenAI si prepara a costruire un centro dati da 60 miliardi di dollari in Texas, grande quanto Central Park, con una centrale a gas naturale personale (perché si sa, la sostenibilità è importante, ma mica quando rallenta i batch), i ricercatori argentini stanno addestrando modelli in aule scolastiche riciclate, su chip che Intel ha smesso di produrre prima che nascesse ChatGPT. In Kenya, startup brillanti come Qhala o Amini noleggiano tempo macchina in notturna per evitare la congestione di rete. Per loro l’AI non è una frontiera da conquistare, è una scalata verticale senza corde e con le mani legate.
La narrativa dominante racconta di un mondo che si apre grazie all’intelligenza artificiale. È falso. Si sta chiudendo. Perché l’AI non è più un gioco di codice, è un gioco di muscoli computazionali. E come ogni impero che si rispetti, quelli che hanno il potere lo usano per accumularne di più. Gli Stati Uniti e la Cina stanno bruciando miliardi in GPU, alimentando modelli fondati su dati che parlano inglese o cinese, pensando il mondo a loro immagine e somiglianza. Non c’è da stupirsi se l’AI diagnostica meglio i tumori sui pazienti anglosassoni, o se fallisce miseramente quando si tratta di decifrare un testo in swahili o un contratto legale in portoghese brasiliano. L’AI è addestrata a capire chi la può permettere.
Ma c’è di più. Quando un paese non ha accesso all’infrastruttura, il talento scappa. Il cosiddetto brain drain non è solo una perdita di capitale umano: è l’emorragia di visione culturale, l’impoverimento delle prospettive. Gli algoritmi diventano più omogenei, le soluzioni meno generalizzabili. Come possiamo parlare seriamente di AI per il cambiamento climatico se metà del mondo non può nemmeno simulare un modello locale di previsione meteo? O di intelligenza artificiale per la medicina se i dataset non includono fenotipi non caucasici?
Naturalmente, c’è chi prova a resistere al disastro. Il Brasile ha annunciato un piano da 4 miliardi di dollari per un’AI sovrana. L’India investe in modelli multilingue per riflettere la sua complessità linguistica. Alcune nazioni africane, con coraggio e creatività, stanno costruendo hub regionali. Ma sono fiammate locali in un incendio globale che brucia in due direzioni opposte: la corsa tra Washington e Pechino procede a velocità quantistica, lasciando dietro un deserto di bit e buone intenzioni.
È ironico che l’AI, che dovrebbe aiutarci a superare i limiti umani, stia invece replicando e amplificando tutte le nostre diseguaglianze. Questa non è più la digital divide. È una compute cliff. Non è una distanza da colmare, è un precipizio da cui molti stanno già cadendo. E la corda di salvataggio, indovinate un po’, costa in petaflop e kilowatt.
Dietro questa guerra silenziosa per il calcolo c’è una questione morale, geopolitica, perfino filosofica. Chi decide cosa è “intelligenza”? Chi scrive le regole con cui i modelli imparano a valutare un comportamento umano, un’opinione, un’etica? L’accesso alla potenza computazionale sta rapidamente diventando il nuovo colonialismo digitale, una forma elegante di dominio in cui non servono armi né eserciti, solo GPU e brevetti.
A chi spetta, allora, costruire una vera equità nell’intelligenza artificiale? L’ONU balbetta, l’Unione Europea regola, ma non costruisce. I big tech accumulano silicio come se fosse oro digitale. E nel frattempo, si chiede al ricercatore senegalese o al professore colombiano di competere nel mercato globale con tool pensati per San Francisco. È come chiedere a un maratoneta scalzo di correre contro una Tesla.
Se vogliamo davvero parlare di AI equa, dobbiamo partire da un presupposto scomodo: l’intelligenza non basta. Servono cavi, raffreddamento liquido, megawatt e supply chain resilienti. Serve una nuova Bretton Woods del calcolo, un Fondo Monetario Computazionale che distribuisca potenza come risorsa strategica. Perché finché la potenza resterà concentrata, anche l’intelligenza artificiale resterà stupida.
Nel frattempo, i modelli continueranno a fallire sulle lingue minoritarie, a trascurare malattie endemiche del sud del mondo, a suggerire soluzioni inutilizzabili in contesti con blackout quotidiani. Continueranno a riflettere una realtà che esiste solo nelle torri di vetro dei paesi che si possono permettere di pensare al futuro come a una serie di prompt su un’interfaccia fluida. Per tutti gli altri, il futuro è una riga di comando senza accesso root.
Chi non possiede il calcolo, non possiede l’AI. E chi non possiede l’AI, nel 2025, rischia di non possedere neppure il proprio destino.
La fonte principale per questi dati è un mix di analisi industriali (McKinsey, OpenAI, SemiAnalysis), dati pubblici da hyperscaler e report geopolitici.
Paese | Capacità AI Compute (stimata) | Osservazioni rilevanti |
---|---|---|
Stati Uniti | Estremamente alta | Dominio assoluto. Nvidia, OpenAI, Microsoft, Google, Meta, Amazon. Data center specializzati ovunque. |
Cina | Molto alta (limitata da export control) | Giganti come Baidu, Tencent, Alibaba, Huawei. Sanzioni su chip rallentano ma non fermano la corsa. |
Regno Unito | Alta | DeepMind, investimenti massicci da parte di Google e AWS. Nuovi poli AI a Cambridge e Manchester. |
Canada | Alta | Sede di pionieri come Yoshua Bengio. Montreal e Toronto sono hub AI con infrastruttura avanzata. |
Germania | Alta | Progetti europei con GAIA-X, SAP, Bosch. Siemens sta costruendo cluster privati per AI industriale. |
Francia | Alta | Investimenti pubblici e privati. Cluster AI in crescita a Parigi, supporto da OVHcloud. |
Giappone | Media-alta | Rilancio AI con supporto statale. Sony, NEC e SoftBank attivi. Limiti nella scala dei modelli. |
Corea del Sud | Media-alta | Samsung e LG con centri di calcolo AI avanzati. Governo punta a sovranità computazionale. |
Israele | Media-alta | Forti capacità in AI militare e startup. Nvidia e Intel investono in infrastrutture locali. |
Singapore | Media-alta | Hub regionale per il Sud-Est Asiatico. AI policy e data center a bassa latenza per modelli multilingue. |
India | Media | Progetti di AI sovrana in corso. Compute ancora limitato ma in rapida espansione. |
Brasile | Media | Investimento da $4B per AI nazionale. Prime installazioni di cluster GPU su scala. |
Emirati Arabi Uniti | Media | G42, Falcon LLM, Sovereign Compute. Hub AI nel Golfo. |
Australia | Media | Università e settore minerario spingono per l’AI locale. Compute concentrato. |
Paesi Bassi | Media | ASML e data center hyperscaler (AWS, Google). Buona presenza ma non massiva. |
Svizzera | Media | Clima ideale per data center. Zurich è polo AI in Europa. |
Italia | Bassa-media | Crescita recente con Leonardo HPC e progetti universitari. Mancano ancora investimenti massivi. |
Spagna | Bassa-media | Iniziative AI europee ma compute limitato. Barcelona Supercomputing Center in espansione. |
Svezia | Bassa-media | Data center green e AI decentralizzata. Compute accessibile ma frammentato. |
Finlandia | Bassa-media | Sisu HPC, progetti EU. Utile per AI scientifica. |
Norvegia | Bassa | Data center alimentati a idroelettrico, ma pochi specializzati per AI. |
Danimarca | Bassa | Buon cloud, ma mancano cluster AI di nuova generazione. |
Belgio | Bassa | Università con accesso ad AI via progetti europei. |
Irlanda | Bassa | Data center hyperscaler per servizi cloud, ma pochi per training AI. |
Austria | Bassa | Presente in progetti di ricerca EU. Compute locale limitato. |
Polonia | Bassa | Alcuni cluster universitari. Compute insufficiente per LLM. |
Ungheria | Molto bassa | Accesso a compute solo via cloud pubblico. |
Grecia | Molto bassa | Progetti pilota ma scarsa capacità hardware. |
Sud Africa | Molto bassa | Alcuni tentativi regionali, ma si dipende da server overseas. |
Nigeria | Quasi nulla | Start-up AI attive ma senza compute locale. |
Kenya | Quasi nulla | Talentuoso ecosistema AI, affamato di GPU. |
Argentina | Quasi nulla | AI con hardware riciclato. Dipendenza dal cloud estero. |