La cosa più pericolosa nel mondo della tecnologia non è l’innovazione. È la distrazione. E mentre il mondo intero fissa il cielo aspettando che OpenAI liberi l’AGI come se fosse l’Apocalisse Digitale, Google stampa 28 miliardi di dollari di profitto con la freddezza glaciale di un adulto che osserva un’adolescente agitato fare breakdance al centro di una sala riunioni.
I numeri, come sempre, non mentono. Nel secondo trimestre del 2025 Alphabet ha riportato 96,4 miliardi di dollari di ricavi, in crescita del 14% anno su anno. La ricerca, quel dinosauro che secondo certi commentatori sarebbe ormai estinto, ha generato 54,2 miliardi. Cloud è cresciuto del 32%. CapEx? Alzato a 85 miliardi. Non c’è stata una diretta streaming. Nessun tweet criptico stile Silicon Valley messianica. Nessuna influencer che si svena in diretta per mostrare un prompt miracoloso. Solo profitti, infrastruttura, dominio silenzioso.
Nel frattempo, OpenAI brucia fino a un miliardo al mese. Ogni query è un’ustione di capitale. Ogni utente, un costo. Ogni prodotto, una scommessa perdente in termini di margini. Una startup che vive della propria narrazione, più che del proprio bilancio. Ma siccome la Silicon Valley non ha mai saputo distinguere tra storytelling e strategia, sembra che molti ci stiano cascando. Sì, OpenAI ha il 90% della share of voice nel racconto sulla GenAI. Ma è una voce che urla in un vicolo cieco, mentre Google ha già comprato l’autostrada.
Il punto è semplice. E brutale. Il futuro dell’intelligenza artificiale non lo vince chi fa la demo più spettacolare. Lo vince chi riesce a integrarla in scala, silenziosamente, ovunque. E Google lo sta già facendo. Gemini è già dentro Android, Gmail, YouTube, Drive, Search. Nessun annuncio roboante. Nessuna interfaccia da giocattolo. Nessuna attesa spasmodica. Solo utenti che lo usano, senza neanche rendersene conto.
Le metriche? ChatGPT processa circa un miliardo di query al giorno, contro i 16 miliardi di Google Search. Per chi fatica con la matematica: Google è 16 volte più grande. Non del futuro. Del presente. È come se qualcuno avesse dichiarato che lo skateboard ha superato il treno ad alta velocità, solo perché è più “cool”.
A livello tecnico, Gemini è superiore. Contesto da un milione di token. Multimodalità nativa. Comprensione integrata di immagini, video, codice e audio. TPU v5p proprietarie, non GPU a noleggio. Scalabilità a costi marginali quasi nulli. E, dulcis in fundo, prestazioni superiori a GPT-4 in compiti critici come ragionamento, programmazione e gestione di contesti lunghi. Ma questa parte non fa notizia. Perché non si può postare uno screenshot di una TPU. Né fare un TikTok virale su un’integrazione API silenziosa.
La verità è che OpenAI sta vincendo una sola guerra: quella dell’attenzione. Dominano il racconto. Impongono il lessico. Decidono cosa fa hype. Ed è su questo hype che costruiscono valutazioni miliardarie, attraggono talenti, vendono consulenze e alimentano il FOMO aziendale. Ma quando il castello narrativo inizierà a scricchiolare, quello che emergerà sarà ciò che è sempre esistito: Google è ovunque. Google è integrato. Google è profittevole. E soprattutto, Google è noioso.
E la noia, in un mercato che ama la razionalità travestita da follia, è il più sottovalutato degli edge competitivi. Mentre gli altri sognano il prossimo grande salto, Google ha già costruito il ponte. Mentre qualcuno promette di distruggere il search, Google lo evolve con l’intelligenza artificiale senza che nessuno se ne accorga. Altro che AGI. Qui c’è già una AI silenziosa, scalabile, e soprattutto, utile.
Il paradosso più grande? Proprio mentre la narrativa celebra la disruption, la vera rivoluzione avviene nella continuità. Nell’aggiornamento invisibile di un algoritmo. Nella riduzione dei costi grazie a chip custom. Nell’automazione della supply chain dei dati. Un cambiamento talmente radicale da sembrare stabile. E quindi ignorato.
Se si guarda sotto la superficie, si capisce subito che la competizione non esiste. Non c’è. È una finzione retorica, una coreografia utile solo agli analisti che hanno bisogno di drammatizzare ogni ciclo tecnologico per vendere report. La realtà è che Alphabet si comporta come l’unico vero incumbent in grado di giocare sia la partita dell’infrastruttura che quella del prodotto. È un duopolio travestito da gara. Ma uno dei due corridori ha già tagliato il traguardo, mentre l’altro continua a fare giri in pista per le telecamere.
C’è qualcosa di profondamente ironico in tutto questo. L’azienda che è più vicina al concetto di intelligenza artificiale generalista, per capacità computazionale, accesso ai dati e distribuzione planetaria, è proprio quella che viene data per superata. È come se si fosse diffusa una distorsione cognitiva collettiva, in cui il protagonista della storia è stato riscritto come comparsa. È quasi geniale. Ma anche pericoloso.
Quando il ciclo dell’hype finirà, e finirà come sempre, non resterà il nome di chi ha fatto più conferenze o ottenuto più clip su TikTok. Resterà chi ha costruito una piattaforma che funziona, genera valore e scala in modo sostenibile. E in questo, non c’è competizione. Solo una lunga, inesorabile, e noiosa vittoria.