Per la prima volta in mezzo secolo l’economia americana ha deciso di rovesciare un dogma che sembrava scolpito nel granito industriale. Le imprese non puntano più il grosso dei capitali sulla vecchia triade di macchinari, linee produttive e catene di montaggio. Il denaro fresco non va a presse idrauliche e camion pesanti, ma a software, chip e ricerca avanzata. Non è una rivoluzione rumorosa, è un trasferimento di potere silenzioso che avviene nei bilanci aziendali, con una forza capace di ridefinire la geografia stessa del capitalismo. Chi pensava che la Silicon Valley fosse soltanto un hub di startup visionarie si ritrova ora a leggere i dati del Dipartimento del Commercio e a scoprire che l’economia reale, quella dei conti nazionali, sta virando decisa verso l’immateriale.
Basta scorrere i numeri di Wells Fargo per intuire la portata di questo cambio di paradigma. Ogni ciclo economico degli ultimi cinquant’anni raccontava la stessa storia: i capitali più consistenti venivano spesi in attrezzature tangibili. Ora, invece, l’investimento in proprietà intellettuale, software e R&D supera tutto il resto. Un economista distratto potrebbe liquidarla come moda passeggera indotta da tariffe e tensioni commerciali. In realtà si tratta di un riorientamento strutturale. Il ferro e l’acciaio, simboli della potenza industriale, cedono il passo a silicio e algoritmi. E quando i flussi di capitale cambiano direzione, cambia inevitabilmente anche la fisionomia di un Paese.
Il cuore della questione non è soltanto che le aziende spendono più in computer che in macchinari industriali e mezzi di trasporto messi insieme. La vera trasformazione è che questo scivolamento verso l’hi-tech trascina con sé tutto il sistema economico globale. Le importazioni statunitensi di beni capitali sono aumentate del 17% nella prima metà del 2025 rispetto all’anno precedente. Ma dietro il numero si nasconde un dato ancora più eloquente: il 98% di questa crescita arriva da appena quattro categorie, ovvero computer, accessori informatici, apparecchiature per telecomunicazioni e dispositivi elettrici. Quattro colonne portanti di un’economia che sta ridisegnando la catena del valore a livello planetario.
La dipendenza estera, naturalmente, resta. Taiwan, Messico, Cina e Vietnam sono i polmoni che riforniscono di ossigeno tecnologico l’economia statunitense. Eppure, la quota cinese, un tempo intoccabile, si sta ridimensionando. Non è un dettaglio. È la conseguenza diretta di un decennio di attriti commerciali che ha spinto le multinazionali a diversificare. È il segnale che la geopolitica ha finalmente smesso di essere un capitolo a margine dell’economia ed è entrata nella contabilità delle scelte industriali. Le supply chain non sono più catene, sono reticoli strategici che tengono insieme diplomazia, commercio e produzione.
In questo scenario anche il dato apparentemente modesto del 3% di produzione domestica hi-tech assume un significato dirompente. Perché cresce del 14% anno su anno e perché non include ancora la variabile più esplosiva del decennio: i data center. Quelle anonime cattedrali di cemento e server che sorgono nelle periferie americane stanno diventando la nuova architettura del potere economico. Per anni la chimica è stata la regina indiscussa delle costruzioni industriali. Ora rischia di essere scavalcata da centri di calcolo che divorano energia ma generano un valore aggiunto esponenziale. In questa metamorfosi si intravede lo stesso impulso che negli anni Novanta trasformò il personal computer in motore di produttività. Allora come oggi il sospetto era che fosse una bolla passeggera. Il tempo dimostrò che non lo era.
Chi osserva questo fenomeno con lo scetticismo del “ciclo breve” ignora che l’allocazione del capitale è la bussola che orienta l’economia reale. Non importa se la scintilla iniziale sia stata tariffaria o emergenziale. Conta che oggi le aziende abbiano scelto, e la loro scelta sta scavando un solco che difficilmente verrà riempito a ritroso. La marcia verso l’hi-tech è irreversibile, perché non si tratta di un lusso, ma di una condizione necessaria per rimanere competitivi in un’economia che ha smesso di misurarsi con tonnellate di acciaio e ha iniziato a misurarsi in petaflop di calcolo.
L’ironia è che la stessa America che aveva costruito il proprio mito industriale su autostrade, fabbriche di automobili e oleodotti, oggi si ritrova a fare da laboratorio a un capitalismo che pesa sempre meno e pensa sempre di più. È un capitalismo che importa schede madri invece di motori, che costruisce server farm invece di raffinerie, che misura la produttività in righe di codice invece che in bulloni prodotti. Un capitalismo che spaventa i nostalgici della manifattura, ma che ha già dimostrato di saper moltiplicare la produttività quando il capitale si concentra dove i ritorni marginali sono più alti.
Forse non è un caso se gli stessi economisti parlano di “quiet revolution”. Perché la vera rivoluzione non si annuncia mai con proclami, si infiltra nei numeri fino a diventare la nuova normalità. Se questi nuovi impianti hi-tech arriveranno a saturare la capacità produttiva, la traiettoria sarà chiara: più produzione domestica, meno dipendenza estera, maggiore resilienza strategica e un balzo nella produttività complessiva. Gli Stati Uniti non stanno solo spendendo diversamente, stanno riscrivendo il DNA del loro sistema economico. E chi guarda con distacco farebbe bene a ricordare come si chiudeva la partita degli anni Novanta. Allora vinsero i pionieri del digitale, oggi si prepara il secondo round. Questa volta con capitali molto più grandi, tecnologie molto più mature e una competizione globale assai meno indulgente.


