Il paradosso è servito. Il mercato azionario americano, la vetrina più osservata del capitalismo globale, è oggi più caro che all’apice della bolla delle dot-com. Sì, avete letto bene: più caro del 2000, quando un dominio web con un’idea vaga di business poteva gonfiare valutazioni fino a stratosfere poi implose. La differenza è che stavolta non si parla di startup bruciasoldi, ma di giganti tecnologici con fatturati da Pil nazionale e margini che sembrano scritti in laboratorio. Eppure la matematica delle valutazioni non mente: lo S&P 500 viene scambiato a 3,23 volte le vendite, un record storico, mentre il suo price-to-earnings forward è 22,5, ben oltre la media venticinquennale di 16,8.

Chi sventola bandiere rialziste sostiene che non c’è nulla di irrazionale nell’euforia: Nvidia, Microsoft, Apple e il club ristretto dei mega-cap producono utili reali, non fumo, e cavalcano tendenze strutturali come intelligenza artificiale, cloud computing e infrastrutture digitali. È la narrativa della nuova rivoluzione industriale, alimentata da semiconduttori che valgono quanto oro e software che si vendono come acqua nel deserto. A rendere più appetibile il cocktail ci sono margini operativi ancora elevati, capaci di attutire l’impatto dell’aumento dei multipli.

Il punto critico però non è tanto il livello delle valutazioni, quanto la concentrazione del potere. Il 39,5% del valore dello S&P 500 è oggi nelle mani delle dieci maggiori aziende. Praticamente mezzo indice in tasca a un manipolo di corporation. È una concentrazione mai vista prima, nemmeno durante la febbre delle dot-com, quando i leader cambiavano volto a ogni crash. Qui no: il club è solido, le barriere all’ingresso sono tecnologiche, finanziarie e geopolitiche. Ma questa solidità si trasforma in fragilità sistemica, perché se cade uno di loro, l’intero mercato sente la scossa.

L’analogia storica con il 1999 è inevitabile. Allora gli investitori compravano promesse di crescita, oggi comprano crescita reale. Ma questo non elimina il problema dei multipli estremi. La narrativa “questa volta è diverso” è sempre la più pericolosa. La bolla dot-com si basava sull’illusione della nuova economia digitale, mentre oggi la nuova economia esiste davvero e genera cash flow mostruosi. Tuttavia, il prezzo che il mercato è disposto a pagare per ogni dollaro di ricavi è oggi più alto di quanto fosse nel pieno della follia speculativa di fine secolo.

Chi vede nel rialzo un atto di fede nelle tecnologie emergenti dimentica che i tassi d’interesse non sono più zero. Il denaro non è gratis e il costo del capitale torna a pesare. L’argomento dei rialzisti è che l’AI rivoluzionerà tutto, dalle supply chain alla sanità, e quindi questi multipli non sono follia ma scommessa sul futuro. I ribassisti rispondono che, in caso di rallentamento o di politica monetaria restrittiva prolungata, non c’è margine d’errore sufficiente per evitare una correzione violenta. La verità è che entrambi hanno ragione e torto allo stesso tempo, perché la dinamica è più sottile: non si tratta solo di crescita, ma di concentrazione della crescita in pochissime mani.

Le metriche non fanno prigionieri. Nel 2000 la bolla è esplosa perché non c’erano utili reali a sostenerla. Oggi ci sono utili, ma il problema è che il mercato li prezza come se fossero eterni. Non esiste margine eterno, non esiste crescita infinita, e soprattutto non esiste un’egemonia che non possa essere erosa da innovatori imprevisti o shock esterni. Ma il mercato finge che questi rischi siano statistica irrilevante, un rumore di fondo. È questa la fragilità strutturale: non il livello assoluto delle valutazioni, ma l’illusione che la concentrazione sia un porto sicuro.

Si potrebbe obiettare che il 39,5% in mano a dieci società sia un “safe bet”, dato che parliamo delle aziende meglio capitalizzate e più innovative del pianeta. Ma la storia finanziaria non è mai stata gentile con le concentrazioni eccessive. I colossi giapponesi negli anni 80 sembravano indistruttibili, così come General Electric nel 2000 o Exxon quando dominava i mercati energetici. Oggi quegli imperi sono ridimensionati, spesso senza ritorno. La domanda vera non è se Nvidia o Apple continueranno a generare profitti, ma se lo faranno a un livello tale da giustificare multipli che la storia dice insostenibili.

Il mercato azionario americano oggi non è un casinò di startup improvvisate ma una scommessa gigantesca sul fatto che un pugno di aziende possa rappresentare la crescita strutturale del XXI secolo. È un patto faustiano che mescola entusiasmo tecnologico e vulnerabilità estrema. Chi si fida vede un futuro di utili inarrestabili, chi diffida osserva che mai nella storia i multipli record hanno garantito stabilità. La verità è che il capitalismo, come la fisica, non tollera squilibri per sempre. Prima o poi la concentrazione diventa un problema, che sia per shock esogeni o per la semplice aritmetica dei rendimenti decrescenti.