Satya Nadella ha appena detto a mezza voce quello che molti top manager non osano neanche pensare: alcune delle attività più redditizie di Microsoft potrebbero presto diventare irrilevanti. Non è un’esagerazione da conferenza stampa, è la frase detta davanti ai propri dipendenti, durante un town hall interno, quando non c’è la scenografia delle slide patinate. Per un colosso che vale più di due trilioni di dollari, ammettere che il futuro può sgretolare il presente suona quasi blasfemo. Ma è proprio qui che si gioca la sfida più crudele: nell’era dell’intelligenza artificiale, nessuna rendita di posizione è garantita.

Chi conosce la storia dell’informatica sa che i cimiteri delle big tech sono pieni di marchi che sembravano immortali. Nadella ha citato DEC, Digital Equipment Corporation, un nome che oggi non dice nulla alla Generazione Z, ma che negli anni Settanta era il padrone indiscusso dei minicomputer. DEC fece la scelta sbagliata puntando sull’architettura VAX invece di cavalcare la rivoluzione RISC. Da lì iniziò il declino. Nadella ricorda che il suo primo computer era proprio un VAX, e confessa di essere stato ossessionato dall’idea di lavorare per quella compagnia. È un fantasma che lo perseguita: se DEC è sparita, perché Microsoft dovrebbe pensare di essere diversa?

Questa paura trasuda nelle parole del CEO quando dice che “non c’è nessuna autorizzazione permanente a esistere, ogni giorno un’azienda deve guadagnarsi il diritto di sopravvivere facendo qualcosa di socialmente utile”. Suona filosofico, ma è anche cinico. Perché l’utile sociale in salsa Microsoft si traduce in 9.000 licenziamenti, nella retorica del rinnovamento e in un clima aziendale sempre più rigido e freddo. I dipendenti, non a caso, parlano di morale ai minimi storici. La trasformazione digitale, in questo contesto, sembra un processo più simile a un’operazione a cuore aperto che a un elegante rebranding.

Il paradosso è evidente: Microsoft è al suo 51esimo anno di vita, è in piena forma finanziaria, ma si comporta come un paziente cardiopatico che sente il battito accelerare e teme l’infarto. È reduce dal grande errore di Bill Gates di aver mancato la rivoluzione mobile, e questo trauma ha lasciato cicatrici profonde. Nadella non vuole ripetere quella débâcle, e la sua ossessione per l’AI nasce da lì. Se l’azienda non domina la nuova ondata, rischia di essere marginalizzata come lo fu quando l’iPhone ridisegnò il mercato.

Non si tratta di allarmismo. L’intelligenza artificiale generativa sta già erodendo i margini di business più solidi. Office, il pacchetto che per decenni ha rappresentato la droga leggera per ogni ufficio del pianeta, oggi è minacciato da modelli che creano documenti, fogli di calcolo e presentazioni senza bisogno di Word, Excel o PowerPoint. Ironico che la suite che ha insegnato al mondo a lavorare in digitale rischi di diventare superflua proprio grazie all’AI. È la nemesi perfetta. Elon Musk, con il suo solito sarcasmo, ha già scherzato sulla possibilità di simulare Microsoft con un modello di intelligenza artificiale. Una battuta velenosa, ma non troppo lontana dal vero.

Il problema non è tecnologico, è culturale. Il dipendente inglese che ha parlato di un’azienda più fredda e meno empatica ha colpito un nervo scoperto. Microsoft ha sempre oscillato tra l’immagine dell’azienda burocratica e quella dell’innovatore audace. Oggi rischia di diventare un Leviatano impaurito, che taglia teste in nome dell’innovazione, mentre prova a convincersi che la cultura può rinnovarsi insieme ai bilanci. La trasformazione digitale non è soltanto questione di codice e algoritmi, è un processo sociale che richiede fiducia e visione. Licenziare ingegneri e poi chiedere creatività ai superstiti non è proprio la strategia più brillante.

Nadella insiste sulla necessità di “disimparare e imparare di nuovo”. È un mantra che funziona bene nei keynote, ma nella realtà sembra significare soprattutto ridurre i costi e ristrutturare processi. Certo, la retorica del rinnovamento è affascinante: chi può opporsi all’idea di rinascere in un’era di cambiamento? Il problema è che spesso, dietro le parole, si cela il pragmatismo brutale dei capital markets. Se non porti margini crescenti, sei sacrificabile. In questo senso, Microsoft non è diversa da DEC, se non per la scala.

Ciò che colpisce è la consapevolezza quasi esistenziale di Nadella. Non parla come un CEO che difende le proprie linee di business, ma come un filosofo che vede la caducità di ogni impresa. È un discorso quasi stoico: l’azienda deve accettare che ciò che è stato amato per quarant’anni potrebbe non contare più nulla domani. In altre parole, Excel non è la Bibbia, è solo un software. E se ChatGPT o altri modelli fanno il lavoro meglio, non esiste diritto divino alla sopravvivenza.

Il futuro di Microsoft AI si giocherà sulla capacità di abbracciare davvero il cambiamento, senza farsi paralizzare dall’amore per le vecchie glorie. Nadella lo sa, ma non ha ancora spiegato come intende farlo. Gli investimenti miliardari in OpenAI sono un segnale chiaro, ma non bastano. La vera sfida sarà tradurre questa partnership in un ecosistema che sostituisca i vecchi margini di Office con nuove fonti di valore. E sarà un percorso accidentato, perché per ogni linea di codice generata da un modello, c’è una fattura che non verrà più pagata a Microsoft.

La morale è crudele: non importa quanti decenni di successi hai accumulato, nell’era dell’intelligenza artificiale l’unica certezza è che nulla dura per sempre. Chi non sa reinventarsi finisce come DEC, con i propri ingegneri licenziati e assorbiti da altri. Nadella sembra ossessionato da questo spettro, e forse è la sua migliore assicurazione contro l’autocompiacimento. Ma resta la domanda aperta: può un colosso come Microsoft davvero reinventarsi, o è condannato a inseguire il mito della giovinezza eterna?