C’è sempre un certo fascino nelle teorie complottiste, soprattutto quando si parla di chip, Cina e Stati Uniti. L’ultima voce che circola è quasi teatrale: la narrazione secondo cui l’Amministrazione Trump avrebbe autorizzato Nvidia a vendere i suoi chip di intelligenza artificiale a Pechino in cambio di una provvigione del 15 per cento incassata direttamente da Washington. Una sorta di pedaggio da pagare per passare la dogana della sicurezza nazionale. Peccato che non esista uno straccio di documento ufficiale a supporto e che la storia faccia acqua da tutte le parti. Ma il bello è proprio questo: nel settore dei semiconduttori, dove l’opacità geopolitica è pane quotidiano, una bugia ben raccontata suona più vera della realtà.
La realtà è molto più banale e molto più dura. Gli Stati Uniti hanno costruito negli ultimi cinque anni un sistema di export control sui semiconduttori che funziona come una vera e propria muraglia digitale. Chi produce tecnologie considerate strategiche non può esportarle in Cina senza una licenza del Dipartimento del Commercio. Nvidia lo sa bene: prima con l’Amministrazione Trump e poi, in maniera ancora più rigida, con l’Amministrazione Biden, i suoi chip per intelligenza artificiale come gli A100 e gli H100 sono stati oggetto di restrizioni sempre più severe. Le licenze possono essere concesse o negate, ma non prevedono in nessun caso tangenti mascherate da percentuali di incasso. Quello che esiste è la leva geopolitica più potente che Washington abbia oggi a disposizione, ed è usata senza sconti: decidere chi accede alla tecnologia di punta e chi resta indietro.
Kevin Hassett, ex direttore del National Economic Council sotto Trump, non ha mai detto nulla del genere. Non ha mai spiegato a nessuno che bastasse pagare il 15 per cento per avere la benedizione della Casa Bianca. Sarebbe stato un suicidio politico, un autogol mediatico e un caso giudiziario da manuale. Ma nel clima tossico della competizione tecnologica globale, l’idea stessa che si possa “comprare” il via libera a vendere chip alla Cina funziona benissimo come narrazione. Perché fa leva sul cinismo diffuso: siamo tutti portati a credere che dietro le quinte gli interessi economici prevalgano sempre sulla sicurezza nazionale.
In realtà, ciò che prevale oggi a Washington è l’ossessione strategica. La convinzione che l’intelligenza artificiale sia l’arma definitiva del XXI secolo, capace di determinare il futuro degli equilibri globali. E se Nvidia rappresenta l’apice della catena alimentare dell’AI, allora i suoi chip non sono solo hardware: sono strumenti di potere. Non sorprende che gli Stati Uniti vogliano controllarne ogni singolo movimento. E non sorprende che ogni restrizione venga raccontata come parte di una guerra fredda tecnologica che non conosce tregue.
Il mito del 15 per cento serve solo a distogliere l’attenzione dal quadro più inquietante. Non c’è un meccanismo corrotto di “paghi e passi”, c’è un meccanismo pianificato di “se sei amico, puoi crescere; se sei rivale, ti blocco”. È un sistema in cui gli Stati Uniti decidono chi può avere accesso alla tecnologia e chi deve restare al buio, e lo fanno senza bisogno di giustificazioni finanziarie. Una forma di controllo che non ammette scorciatoie e che, a lungo termine, ridisegnerà la geografia dell’innovazione.
Se guardiamo i numeri, la portata del fenomeno è chiara. La Cina è il secondo mercato mondiale per semiconduttori, ma per le GPU avanzate destinate all’AI il divario con l’Occidente si sta ampliando. Nonostante i tentativi di sviluppare alternative domestiche, Pechino non è in grado di replicare le prestazioni dei chip Nvidia a 5 o 3 nanometri prodotti da TSMC a Taiwan. E senza accesso a queste tecnologie, l’ecosistema cinese di intelligenza artificiale rischia di rallentare proprio quando gli Stati Uniti e l’Europa accelerano. Altro che percentuali sulle vendite: qui si gioca una partita di decenni, in cui la supremazia tecnologica decide anche la supremazia militare e politica.
Il paradosso è che Nvidia, in tutto questo, si trova a essere contemporaneamente vittima e beneficiaria. Vittima, perché perde una fetta importante del mercato cinese, dove le aziende tech avrebbero comprato milioni di chip. Beneficiaria, perché il marchio Nvidia diventa sinonimo di tecnologia così strategica da essere limitata per ragioni di sicurezza nazionale. In termini di branding, non esiste pubblicità migliore: se i tuoi chip sono considerati troppo potenti per finire nelle mani sbagliate, allora sei davvero l’azienda più cruciale del pianeta.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, giocano una partita di lungo periodo. Le restrizioni all’export non sono mai pensate per massimizzare i ricavi fiscali, ma per massimizzare il vantaggio strategico. Il discorso del 15 per cento non ha senso perché parte da una premessa sbagliata: che l’obiettivo del governo americano sia guadagnare soldi immediati. In realtà l’obiettivo è molto più ambizioso: impedire alla Cina di raggiungere la parità tecnologica in campi che potrebbero determinare il dominio geopolitico dei prossimi cinquant’anni.
Il resto è rumore di fondo. Le teorie di pagamenti segreti servono solo a rendere più digeribile l’idea che la sicurezza nazionale possa bloccare affari da miliardi. È più rassicurante pensare che tutto sia comprabile, che alla fine basti un assegno per aprire porte chiuse. Ma in questo caso non funziona così. Gli Stati Uniti non hanno messo in vendita le chiavi dell’AI, hanno deciso di custodirle come un tesoro strategico. E Nvidia, con la sua posizione dominante, è diventata il guardiano inconsapevole di quel tesoro.
Chi sogna scorciatoie dovrebbe rassegnarsi. Le restrizioni chip Nvidia Cina non sono un negoziato monetario, ma un braccio di ferro geopolitico. E in questa partita non c’è spazio per il cinismo mercantile dei quindici punti percentuali. C’è solo la logica implacabile della competizione tra superpotenze, dove i chip non sono più pezzi di silicio, ma i mattoni fondamentali del potere globale.