Un cappucino matcha al Bar dei Daini (Greenwashing ovviamente)

Sul fronte ambientale, la grande promessa di Microsoft era: “Diventeremo carbon negative, water positive e zero waste entro il 2030”. Piani ambiziosi, necessari in un mondo che chiede conti ambientali stringenti.

Ma i numeri dicono qualcosa di più crudo: le emissioni di Microsoft sono cresciute del 23-24 % rispetto al 2020, attribuite in gran parte alla costruzione di nuovi data center (servizi cloud, AI, richieste di elaborazione). In termini pratici, i data center assorbono quasi totalmente l’impatto delle sue emissioni “Scope 2” ufficiali (cioè quelle legate al consumo elettrico).

Microsoft reagisce dicendo che, nonostante l’aumento assoluto, l’intensità delle emissioni (per unità di fatturato, per risorsa) sta migliorando: contratti con nuovi impianti rinnovabili (19 GW aggiuntivi nel 2024), investimenti in efficienza (server in modalità a basso consumo, sistemi di raffreddamento più avanzati) e uso di materiali “green” per la costruzione (legno massiccio per ridurre l’impronta carbonica). Si parla anche dell’adozione di sistemi di raffreddamento a immersione e piastre fredde, che secondo uno studio Microsoft ridurrebbero le emissioni di gas serra del 15-21 % rispetto al raffreddamento ad aria.

Ciononostante restano criticità strutturali:

L’aumento assoluto delle emissioni, benché “modesto” rispetto alla crescita del business, mette in luce che i server e le infrastrutture AI sono energia-affamati.

Le “emissioni indirette” (Scope 3, legate a fornitori, materiali, trasporti, ciclo di vita) sono dominate dal capitale e dai beni acquistati, e stanno anch’esse crescendo — Microsoft le fa pesare come oltre il 97 % del totale.

Il mix energetico regionale influisce: dove la rete è “fossile”, il vantaggio dei contratti green è parziale.

Le stime ufficiali possono sottostimare l’impatto reale: studi terzi suggeriscono che le emissioni legate ai data center potrebbero essere 10-20× maggiori se valutate con metodi “location-based” anziché “market-based” come fa Microsoft.

Detto altrimenti, Microsoft sta correndo la sfida della “decrescita assoluta virtuosa” mentre la domanda di calcolo cresce a ritmi esponenziali, soprattutto con l’espansione di servizi generativi AI.


Incrocio di temi: dove l’antitrust e la sostenibilità si incontrano

C’è un intreccio profondo tra le due questioni che stai mettendo in relazione. Le piattaforme dominanti, controllando infrastrutture, reti e accesso ai dati, ottengono un vantaggio competitivo non solo tecnico, ma “strutturale”. Questo vantaggio può essere usato per internalizzare economie di scala (inclusi investimenti green) che startup come OpenAI possono non permettersi. Imporre obblighi antitrust (es. obbligo di accesso, separazione funzionale) potrebbe favorire un’ecosistema più competitivo con effetti positivi anche sulla sostenibilità: più innovazione, più scelta di fornitori efficienti, maggiori incentivi per infrastrutture carbon-lean.

In secondo luogo, le promesse green delle Big Tech possono diventare uno scudo reputazionale contro critiche regolatorie. Se una società è percepita come “verde”, può argomentare che restrizioni regolatorie affosserebbero la “transizione ecologica”. Ma se si dimostra che le loro emissioni crescono nonostante le promesse, il soft power ambientale perde forza.

Infine, una regolamentazione europea che integra considerazioni antitrust e ambientali (es. “green antitrust”) potrebbe vincolare le piattaforme dominanti anche a metriche ambientali: trasparenza nei consumi energetici, obblighi di certificazione carbon neutral per infrastrutture, forcing su raffreddamento efficiente, incentivi a contratti di energia rinnovabile in regioni meno servite.