Dal momento in cui ho letto “Bottom-Up Data Trusts”, ho capito che Sylvie Delacroix non è un’altra accademica che strilla contro il capitalismo dei dati: è la versione filosofica di un hacker institutionale, che vuole riprogrammare il dominio digitale dall’interno. Delacroix ha costruito un pensiero che parte dall’agenzia la nostra capacità di agire, di scegliere, di essere soggetti morali e la collega direttamente alla struttura delle infrastrutture digitali. L’obiettivo: che i dati non siano un vincolo ma uno strumento di emancipazione.
L’ipotesi centrale è questa: nella realtà attuale, la governance digitale (tra piattaforme, algoritmi, economie dell’attenzione) non è neutra. Essa condiziona la nostra capacità di decidere. Le architetture persuasive, la profilazione continua, gli incentivi algoritmici creano dipendenze comportamentali che erodono la riflessione autonoma. Delacroix insiste: se lasciamo che queste architetture (che non sono neutre) continuino a operare senza mediazione, perdiamo agenzia.
Per ribaltare questa condizione serve un’“agenzia etica infrastrutturata” ovvero meccanismi partecipativi incorporati nei sistemi che governano i dati, non post-hoc rimedi regolatori. Qui entra in scena il concetto di data trusts, il lavoro su “infrastrutture partecipative dei dati” e la metafora del “fiume di dati sostenibile” (Sustainable Data Rivers?).
Data Trusts: infrastrutture fiduciari per ripensare potere e consenso
In “Bottom-Up Data Trusts: Disturbing the ‘One Size Fits All’ Approach to Data Governance”, Delacroix e Neil Lawrence propongono che i soggetti contribuiscano collettivamente i loro diritti sui dati in una struttura fiduciaria (trust). Il trustee, vincolato da un dovere fiduciario, media l’uso dei dati nel rispetto delle condizioni stabilite dai beneficiari. In cambio della sua neutralità e fedeltà, può negoziare condizioni più vantaggiose di quante un singolo individuo otterrebbe da solo. (disponibile in SSRN e in allegato)
Questa è una proposta che rovescia tre assunti dominanti: che il consenso individuale sia sufficiente (Delacroix lo definisce “binario e ill-informato”); che la proprietà dei dati sia l’unica risposta; e che la regolazione deve essere soltanto top-down. Il trust offre una mediazione istituzionale che consente pluralità (ogni trust può riflettere valori diversi), uscita (puoi passare da un trust a un altro) e negoziazione collettiva del potere dei dati.
Un elemento cruciale: il trustee ha un obbligo di lealtà indivisa (undivided loyalty). Non può operare conflitti di interesse: ogni decisione deve tendere al bene dei beneficiari. Questo obbligo lo differenzia fortemente dai data controller o service provider che hanno motivazioni commerciali.
Il “trust dei dati” non è pura teoria. Delacroix è co-chair dell’iniziativa Data Trusts Initiative, che promuove progetti pilota e connette ricerca, policy, industria e società civile.
Nel contesto della ricerca, Delacroix e Jessica Montgomery esplorano come i trust possono tradurre principi etici in strumenti operativi: rendere l’accesso condiviso ai dati più fluido, più controllabile, meno dipendente da contratti individuali.
Il fiume di dati sostenibile: metafora e visione ecosistemica
In “Sustainable Data Rivers? Rebalancing the Data Ecosystem That Underlies Generative AI” Delacroix avanza una visione meno statica del dato: non come proprietà da proteggere, ma come flusso da governare.
La metafora del “fiume” ha molte implicazioni. Un fiume non è fermo: scorre, si dirama, si inquina, si rigenera. Allo stesso modo i dati circolano, vengono trasformati, contaminati. Governare un fiume significa garantirne la salute, l’equilibrio tra uso e protezione, il rispetto delle comunità che vi dipendono. Questo spinge a pensare la governance non come meccanismo statico, ma come un processo dinamico e partecipativo.
Delacroix suggerisce che la sostenibilità del flusso di dati richiede tre condizioni: limiti (quante operazioni “estrattive” posso fare), reciprocità (restituire valore alle comunità da cui i dati emergono), infrastrutture di partecipazione. Solo così il “fiume” non si trasforma in un canale monodirezionale dove pochi drenano; può diventare un bene comune dinamico.
Nel suo ragionamento entra anche il tema del copyright e dell’accesso alla cultura: nel panorama delle AI generative, il dato come materia prima dell’intelligenza artificiale solleva interrogativi profondi su come privilegiare l’accesso equo rispetto al diritto esclusivo. Delacroix propone di ripensare i meccanismi del copyright come privilegi condizionati piuttosto che diritti assoluti, integrandoli in infrastrutture partecipative.
Agency Etica, abitudine digitale e interfacce transizionali
Nel suo libro Habitual Ethics? (2022) Delacroix intraprende un percorso ambizioso: non basta dotare le persone di diritti sui dati; bisogna anche intervenire sulla dimensione comportamentale e istituzionale affinché l’azione etica diventi abitudine, non eccezione.
Partendo da una critica degli algoritmi persuasivi che modellano le nostre abitudini, Delacroix si chiede: possiamo progettare interfacce e sistemi che “istruiscano” la nostra etica piuttosto che bypassarla? E come possiamo coltivare capacità critiche, in un contesto mediatico che tende all’ottimizzazione della risposta immediata?
Il suo sforzo teorico non è puramente filosofico: tra i suoi lavori più recenti figura “Designing with Uncertainty: LLM Interfaces as Transitional Spaces for Democratic Revival” (futuro, 2025) in cui Delacroix esplora come le interfacce AI possano diventare spazi di deliberazione, dove l’incertezza non è un bug ma una preziosa condizione democratica.
In questo senso l’agenzia etica non è solo capacità di scegliere: è la condizione di poter riflettere, dissentire, cambiare idea dentro l’architettura digitale. Se un sistema ci spinge sempre verso una “conclusione veloce”, non stiamo esercitando agenzia: stiamo subendo un flusso.
La proposta di Delacroix è potente, ma non priva di problemi pratici e giuridici. Le sfide includono:
le articolazioni del diritto dei trust nei vari ordinamenti (non tutti i sistemi giuridici riconoscono il modello dei trust come in common law).
la definizione legale dei dati che possono essere “in trust” (alcune categorie di dati difficilmente si prestano a diritti negoziabili).
l’adozione reale: convincere individui, imprese, governi a partecipare e contribuire fiduciosamente a strutture di governance che obblighino indipendenza e trasparenza.
il rischio che i trust stessi diventino nuovi centri di potere, se mal progettati o catturati da interessi particolari.
Delacroix è consapevole di queste criticità, e il suo lavoro teorico si accompagna a un forte interesse per i progetti pilota e la pratica istituzionale (attraverso il Data Trusts Initiative).
Un punto che spesso i critici sollevano: non basta delegare a un trustee “etico” e sperare. Serve controllo, trasparenza, possibilità di exit, supervisione legale. Ed è qui che la “infrastruttura etica” deve essere pensata fin dall’inizio.
In Europa, con GDPR ormai consolidato e l’AI Act in gestazione, il modello dei data trusts offre una “terza via” rispetto a statalismo paternalistico e libera deregulation. Può rappresentare un terreno intermedio dove i cittadini recuperino parte del potere che oggi è dislocato nelle piattaforme.
In Italia, la riflessione etica digitale è spesso ridotta a compliance normativa. Delacroix spinge verso qualcosa di più ambizioso: una trasformazione strutturale dell’architettura infrastrutturale. Le università, i centri di ricerca, le iniziative pubbliche locali potrebbero adottare progetti pilota di trust nei settori salute, mobilità, dati urbani, dati ambientali, per sperimentare modelli di governance partecipata.
Imprese sensibili ai temi dell’impatto sociale e della fiducia – soprattutto nella finanza, nel wellness, nei servizi pubblici digitali – potrebbero posizionarsi come operatori attivi nella costruzione di infrastrutture partecipative: non semplici utenti di dati altrui, ma co-costruttori.
Migrare dalla critica alla progettazione
L’intuizione che Delacroix porta è semplice e radicale: non basta criticare l’estrattivismo dei dati. Occorre progettare alternative. I dati possono diventare leva di emancipazione se li immettiamo in infrastrutture partecipative che restituiscono capacità di scelta anziché vincoli.
Abbiamo bisogno di “fiumi” dove le comunità gestiscono il flusso, non di dighe che concentrano potere. Di trust che negoziano, non di accordi fatti a monte. Di interfacce che stimolano riflessione, non risposte automatiche.
Delacroix non promette rivoluzioni immediate. Ma propone un percorso: costruire istituzioni, sperimentare, iterare. Non è un sogno utopico, ma una provocazione strategica: se non ripensiamo l’architettura, restiamo prigionieri della tecnologia. Se lo facciamo, possiamo farne strumento di dignità e agency.