È ufficiale. Dalla fine del 2024, il numero di articoli generati da intelligenze artificiali ha superato quello degli articoli scritti da esseri umani. Una rivoluzione silenziosa che ha trasformato il web in un’enorme officina di testi prodotti da modelli linguistici come ChatGPT, Claude e Gemini, mentre le redazioni umane si ritirano dietro quinte digitali sempre più affollate.

Ma ecco il paradosso: nonostante questa invasione, la curva di crescita si è improvvisamente fermata. Dopo il picco di maggio 2024, la percentuale di contenuti AI pubblicati si è stabilizzata. È come se il web avesse raggiunto un punto di saturazione, o forse un momento di autoconsapevolezza. Gli editori stanno iniziando a capire che la quantità non è sinonimo di visibilità. Google e ChatGPT, secondo i dati, non mostrano la maggior parte di questi articoli nelle loro risposte. È un po’ come stampare milioni di copie di un giornale e poi scoprire che nessuno le distribuisce.

L’analisi, condotta su un campione di 65 mila articoli in inglese tratti da CommonCrawl, rivela che la produzione di testi generati da AI è esplosa dopo il lancio di ChatGPT nel novembre 2022. In dodici mesi, gli articoli scritti da modelli linguistici hanno raggiunto il 39% della pubblicazione complessiva online. Da quel momento, però, la curva ha smesso di salire. Gli esperti ipotizzano che i risultati deludenti in termini di performance su motori di ricerca abbiano raffreddato l’entusiasmo iniziale.

L’esperimento si basa su un algoritmo di rilevazione sviluppato da SurferSEO, capace di identificare la probabilità che un testo sia stato generato da AI con una finestra di 500 parole. Il sistema considera un articolo come “AI-generated” se più del 50% del contenuto risulta artificiale. Il tasso di errore? Appena il 4,2% di falsi positivi e uno 0,6% di falsi negativi, numeri sorprendentemente bassi in un campo in cui molti sostengono che “rilevare l’intelligenza artificiale sia impossibile”.

È interessante notare che questa analisi non considera gli articoli “ibridi”, quelli scritti a quattro mani tra uomo e macchina. La zona grigia più vasta del web editoriale è proprio lì: testi generati da AI, poi rifiniti, adattati e firmati da esseri umani. In molti casi è impossibile distinguere chi abbia davvero avuto l’ultima parola. E forse non importa più.

La motivazione alla base di questa trasformazione è economica, non poetica. Per un’azienda, pubblicare un articolo scritto da un modello linguistico costa una frazione di quello redatto da un giornalista o un copywriter umano. Con l’illusione che il traffico organico, quello di Google, risponderà comunque. Il problema è che la visibilità non è democratica. La maggior parte dei contenuti AI, pur esistendo, non viene letta, né apprezzata dagli algoritmi che contano davvero.

Il risultato è un web gonfio di testi ben scritti ma vuoti, come una biblioteca sterminata di libri mai aperti. La qualità dei contenuti generati da AI è indubbiamente migliorata. Studi del MIT e di Originality.ai mostrano che spesso il lettore medio non distingue più la differenza tra un testo scritto da un umano e uno generato da un modello linguistico. Ma questo non significa che i contenuti vengano trovati, cliccati o letti. L’algoritmo di Google non si commuove davanti alla sintassi perfetta.

C’è un aspetto ironico in tutto questo. L’intelligenza artificiale è stata addestrata a scrivere come gli umani, per poi essere penalizzata da un motore di ricerca progettato dagli stessi umani per favorire autenticità e originalità. È come addestrare un robot a cucinare e poi vietargli l’ingresso in cucina perché “non è abbastanza umano”.

Molti editori ora si interrogano sul futuro. Se il contenuto AI non si posiziona e quello umano costa troppo, quale sarà la strategia vincente? Probabilmente un ritorno all’ibridazione: l’AI come ghostwriter, l’umano come regista narrativo. Non è un caso che le grandi piattaforme di publishing stiano testando sistemi misti, dove la macchina produce bozze e l’autore umano inserisce tono, visione e storytelling.

Resta una domanda provocatoria: se la maggior parte del web è scritta da AI, per chi scrivono le AI? Forse per altre AI. Il rischio è un ecosistema autoreferenziale, dove macchine generano testi che solo altre macchine leggono, valutano e archiviano. Una spirale semiotica che trasforma il web in un gigantesco specchio digitale, più adatto alle macchine che agli uomini.

La verità, in fondo, è che la produzione di contenuti non è mai stata un problema di quantità ma di direzione. Oggi scriviamo più di quanto leggiamo, e leggiamo più di quanto comprendiamo. L’intelligenza artificiale ha democratizzato la scrittura, ma non l’attenzione. Il web si è riempito di parole generate in automatico, ma il valore resta umano.

Il futuro della scrittura online, dunque, non è nel moltiplicare articoli, ma nel creare connessioni reali. Finché gli algoritmi di Google continueranno a premiare l’intento, la pertinenza e la fiducia, la vera sfida non sarà “scrivere di più”, ma “scrivere meglio”. Anche se a farlo sarà, inevitabilmente, un’AI che ha imparato tutto da noi.

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