Il sentimento ribassista sull’equazione costo-beneficio dell’intelligenza artificiale è diventato talmente diffuso che sembra ormai buon senso. Un nuovo consenso al contrario: chi non è scettico appare ingenuo. Poi arriva Oracle, l’azienda quasi cinquantennale che si è reinventata in cloud provider come mi ha spiegato ieri un VP Italiano “smart”, a Smith & Vollensky offrendomi un Pinot Noir di Sonoma, e l’azienda di fare quello che pochi hanno il coraggio di fare in un mercato in preda al dubbio: dichiararsi in ipercrescita. Non una metafora, ma una promessa contabile. E con la solennità dei suoi numeri, Oracle sostiene di essere un’azienda in “hypergrowth” grazie all’espansione dei suoi AI data center, i motori digitali che dovrebbero trainare la prossima decade del cloud.

Non è solo retorica. Durante la presentazione agli investitori, Oracle ha mostrato una proiezione di crescita che sfiora il 53 % entro il 2028, rispetto all’8,4 % dell’anno fiscale precedente. Una traiettoria che, se fosse vera, riscriverebbe la storia dei software enterprise. Ma la parte più audace è arrivata con l’aggiornamento della guidance: la divisione cloud dovrebbe generare 166 miliardi di dollari nel 2030, rispetto ai 10 miliardi attuali. Un moltiplicatore di sedici volte in cinque anni. Persino i più ottimisti hanno esitato un istante prima di applaudire.

Sul palco, Larry Ellison era in gran forma. Ha divagato tra la genomica del grano e una serra robotica controllata da AI che, dice, potrebbe funzionare su Marte. Poi ha sorriso, aggiungendo che quei ricavi interplanetari non sono inclusi nelle previsioni ufficiali. Il pubblico ha riso, ma gli analisti hanno annotato i numeri, e sono quelli a cui conviene prestare attenzione. Oracle sa che i suoi AI data center sono molto meno redditizi del software tradizionale che l’ha resa ricca. Eppure insiste nel presentarli come il futuro della redditività, non solo della crescita.

Qui inizia la parte interessante. Secondo The Information, i data center AI di Oracle hanno registrato un margine lordo del 16 % negli ultimi cinque trimestri, contro un margine complessivo del gruppo intorno al 70 %. Una forbice che spiega il nervosismo degli investitori e il sell-off temporaneo del titolo. Ma Clay Magouyrk, co-CEO e volto tecnico della trasformazione, ha assicurato che i margini saliranno al 35 % nei prossimi anni. Un raddoppio che richiede una combinazione di efficienza operativa, automazione e contratti pluriennali a prezzo pieno che nemmeno Amazon Web Services è sempre riuscita a mantenere.

Il problema, però, è che Oracle non ha fornito dettagli sufficienti per capire come questo miracolo avverrà. Nessuna segmentazione chiara delle divisioni cloud, nessuna trasparenza sulle dimensioni relative, nessuna proiezione sui costi dei chip o sull’efficienza energetica dei nuovi centri. Ancora meno chiaro è il quadro dei capex Oracle, in piena esplosione. La spesa per infrastrutture è così alta che l’azienda ha bruciato cassa nell’ultimo anno fiscale e, secondo S&P Global, continuerà a bruciarne circa 7,5 miliardi l’anno per i prossimi tre. Per confronto, nel 2024 aveva generato 11,8 miliardi di free cash flow.

È come se Oracle stesse accelerando un’auto sportiva su un ponte che non è ancora terminato, fidandosi che i ricavi futuri completino il resto della struttura prima che la gravità faccia il suo lavoro. Gli analisti hanno apprezzato la visione, ma non il rischio. Le azioni sono salite del 3 % in chiusura e poi scese del 2 % after hours. L’entusiasmo e la cautela si sono mischiati come due strati di un cocktail difficile da digerire.

Da CTO con troppi bilanci sotto gli occhi, confesso che la storia di Oracle mi affascina e mi inquieta. L’idea di spostare il centro di profitto dal software ai data center AI è un salto quantico nella logica aziendale: passare da margini del 70 % a margini forse del 25 % significa cambiare pelle, non solo strategia. È la transizione da software capitalism a infrastructure capitalism, e pochi CEO sopravvivono alla mutazione.

Proviamo a immaginare tre scenari:

Nel best case scenario, Oracle riesce a fare ciò che pochi considerano possibile: costruire una rete di data center AI con efficienza operativa paragonabile a quella di AWS o Azure. I margini lordi dei centri AI passano dal 16 % al 35 % entro il 2028, grazie a economie di scala, chip proprietari ottimizzati per carichi specifici e una gestione aggressiva del raffreddamento. L’azienda riesce a mantenere un costo di capitale stabile, nonostante l’aumento dei tassi, e converte le promesse di “contratti cloud” in ricavi effettivi. L’AI diventa così una divisione che genera cassa positiva già nel 2027. Con una crescita media del 45 % annuo e margini netti oltre il 20 %, Oracle potrebbe arrivare davvero a 200 miliardi di ricavi e 20 dollari di utile per azione. Sarebbe la prova che l’equazione costo-beneficio dell’intelligenza artificiale può ribaltarsi, se hai la scala e il capitale di sopportare le perdite iniziali. In questo scenario, Oracle non è più un inseguitore ma un modello, un “AWS con laurea in ingegneria dei dati”.

Nel base case scenario, più vicino alla realtà, Oracle cresce ma con zavorra. I margini dei data center AI salgono, sì, ma non oltre il 25 % medio, e solo a partire dal 2029. Le economie di scala arrivano tardi perché i chip restano cari, l’efficienza energetica non compensa i costi di costruzione e i contratti di lungo periodo richiedono sconti pesanti per competere con AWS, Google e Azure. La crescita dei ricavi si assesta sul 25-30 % annuo, con un burn rate costante di 5-6 miliardi l’anno per finanziare infrastrutture. L’utile per azione nel 2030 non supera i 13-14 dollari. È una performance notevole, ma lontana dai sogni di ipercrescita. Gli investitori non si arrabbiano, ma neppure applaudono: accettano che Oracle sia diventata un’impresa infrastrutturale ad alta intensità di capitale, non più la software house a margini del 70 % che fu. In questa versione della storia, Oracle resta rispettabile, ma la retorica del miracolo AI evapora.

Nel worst case, invece, la fisica del silicio vince sulla retorica. I chip restano costosi, la domanda rallenta, l’efficienza energetica non basta, e Oracle si ritrova con data center costosi da mantenere e clienti che non riescono a monetizzare l’AI. I margini stagnano sotto il 20 %, la cassa evapora, il debito cresce e il titolo diventa un caso di studio su come non scalare nel cloud AI. Il sogno di ipercrescita si trasforma in un déjà vu da bolla tecnologica.

Dietro questi numeri, però, si cela una verità più ampia. Il dibattito sui costi e benefici dell’AI è diventato il termometro della fiducia nel capitalismo tecnologico. Oracle non sta solo scommettendo su nuovi data center, ma su un cambio di paradigma: l’idea che l’infrastruttura dell’intelligenza valga più dell’intelligenza stessa. È una posizione audace, quasi filosofica, ma anche terribilmente costosa.

Ellison sa che la partita non si gioca sui server, ma sulla percezione. L’AI, per ora, è ancora più un linguaggio che un modello di profitto. Oracle prova a tradurlo in fatturato. Se ci riuscirà, riscriverà l’equazione tra costo e beneficio che oggi alimenta lo scetticismo generale. Se fallirà, la storia ricorderà la sua scommessa come una lezione di hybris tecnologica: credere che basti più hardware per comprare la crescita.

Nel frattempo, gli investitori guardano i grafici, gli analisti i margini, e i CEO le narrazioni. Il paradosso è che lo scetticismo sull’AI, anziché un freno, è diventato un incentivo: chi riesce a convincere il mercato di poter vincere contro la matematica, conquista il capitale. Oracle ci sta provando. E la sua più grande innovazione, per ora, non è l’AI. È la fiducia.