
Il mondo della tecnologia sta assistendo a una silenziosa, ma epocale, mutazione: l’intelligenza artificiale sta abbandonando le server farm remote per insediarsi direttamente, in modo nativo e potente, nei nostri device quotidiani. Al centro di questa transizione c’è l’Apple M5, un sistema su chip che non è semplicemente una versione potenziata del suo predecessore, ma un vero e proprio ripensamento dell’architettura di calcolo. Apple, infatti, ha inciso il futuro su un processo a 3 nanometri, introducendo un concetto radicale: integrare acceleratori neurali all’interno di ogni core della GPU. Non più solo un muscolo grafico, ma una rete di piccoli, efficienti motori per l’IA, capaci di una potenza di calcolo GPU quadruplicata rispetto all’M4.
Questa architettura potenziata, che include una CPU più veloce, un Neural Engine a 16 core e una banda di memoria unificata aumentata del 30% fino a 153 GB/s, è stata concepita con un obiettivo ben preciso: eseguire modelli di grandi dimensioni (Large Language Models) interamente a bordo dei dispositivi. Sia che si tratti del MacBook Pro da 14 pollici, dell’iPad Pro o del Vision Pro, il design dell’M5 punta a eliminare la latenza e la dipendenza dal cloud, permettendo all’IA di lavorare più velocemente, gestendo carichi complessi come la generazione di immagini o l’assistenza alla scrittura (attraverso strumenti come Apple Intelligence) con una fluidità mai vista. È un passo avanti verso dispositivi che, come ama suggerire Apple, non si limitano a eseguire compiti, ma iniziano a manifestare una vera e propria “consapevolezza” sul lavoro che svolgono, ridefinendo il concetto di prestazione attorno alla cognizione.
Eppure, proprio mentre il silicio diventa più intelligente, la mente collettiva sembra farsi più diffidente. L’ottimismo che circonda i progressi tecnologici, così palpabile all’interno della “bolla” della tecnologia, si scontra con una realtà globale ben più cauta, come rivelato da un recente studio del Pew Research Center. Il sondaggio, condotto su oltre 28.000 adulti in 25 paesi, ha messo in luce un dato significativo: l’ansia per la crescente influenza dell’IA supera l’entusiasmo nella maggior parte delle regioni. Circa la metà degli intervistati in paesi come Stati Uniti, Italia, Australia e Grecia si dichiara apertamente a disagio, suggerendo che la percezione del rischio superi quella dei benefici.
L’indagine ha inoltre evidenziato profonde divergenze di fiducia e percezione. La credibilità degli enti regolatori varia enormemente: l’Unione Europea gode della fiducia del 53% degli intervistati sulla supervisione dell’IA, un dato ben superiore a quello riservato a Stati Uniti (37%) e Cina (27%). Le differenze di età sono marcate, con gli adulti sotto i 35 anni che mostrano maggiore familiarità e fiducia rispetto agli over 50. Forse il dato più sorprendente è che l’esposizione al fenomeno non sembra lenire i timori; al contrario, le nazioni più immerse nell’intelligenza artificiale tendono a segnalare i livelli di ansia più alti.
I risultati del Pew Research Center offrono un contrappunto sociale e psicologico all’inarrestabile avanzamento dell’hardware come l’M5. Mentre la tecnologia corre verso l’elaborazione a bassa latenza e l’intelligenza on-device, la gente comune valuta con profonda esitazione la promessa di macchine più intelligenti. Il mondo non è in attesa entusiasta, ma in una pausa collettiva, soppesando i benefici promessi del silicio cognitivo contro l’ignoto costo di vivere accanto a una tecnologia che, per molti, è ancora avvolta in un alone di incertezza e paura.