Se qualcuno avesse sperato che la politica estera americana seguisse logiche prevedibili, il quadro attuale è una doccia fredda. Il conflitto in Ucraina si avvicina al quarto anno e, sebbene il mondo si sia abituato a una Russia apparentemente invincibile, la realtà sul terreno racconta una storia diversa. L’esercito di Putin è logorato, le finanze statali sono sotto pressione e l’isolamento diplomatico è più evidente di quanto qualsiasi propaganda crei illusioni. Paradossalmente, proprio in questo scenario di debolezza estrema, l’ex presidente Trump sembra incapace di applicare la leva che lo ha reso famoso nel gioco politico: colpire i punti deboli dell’avversario per massimizzare il risultato.

Il recente successo di Trump in Medio Oriente offre una lente illuminante. Quando Netanyahu ha sparato il primo colpo verso il Qatar, Trump ha immediatamente trasformato l’errore in un’opportunità di pace, forzando un cessate il fuoco. Chi ha seguito con attenzione la politica internazionale sa quanto sia raro vedere una leadership capace di convertire un incidente diplomatico in un vantaggio tangibile. La domanda che sorge spontanea è perché la stessa abilità non sia stata applicata a Mosca.

La Russia non è più la superpotenza invincibile dei tempi di Crimea o della prima fase del conflitto ucraino. Dopo la fallita terza offensiva su larga scala, l’esercito russo mostra crepe strutturali: logoramento operativo, morale incerto, problemi di rifornimento e una finanza pubblica sempre più sotto stress. Diplomaticamente, i suoi alleati tradizionali scricchiolano, mentre i partner opportunistici si guardano attorno. Questo è il punto di massimo stress, la finestra dove qualsiasi leader con una visione strategica potrebbe esercitare una pressione decisiva.

Eppure Trump sembra agire come se nulla fosse cambiato. In febbraio ha criticato Zelensky con una frase memorabile: “Non hai le carte”, ignorando la resilienza ucraina e la fragilità russa ormai evidente a chiunque osservi i dati militari e economici. Questa contraddizione tra il giudizio su Kiev e la mancanza di pressione su Mosca lascia perplessi: o sta interpretando male la situazione, o la sua fascinazione per l’autoritarismo di Putin sta offuscando la logica strategica che lo ha sempre contraddistinto.

Il mancato sfruttamento di questa leva ha implicazioni concrete. Dal punto di vista geopolitico, ogni momento perso permette alla Russia di riorganizzarsi, accumulare risorse e prolungare il conflitto. La stabilità globale non è una questione astratta: ogni mese di guerra aggiunge rischi economici, energetici e militari che ricadono su Europa, Stati Uniti e, inevitabilmente, mercati globali. Per un leader come Trump, la capacità di capitalizzare questa debolezza potrebbe definire più di qualsiasi trattato di pace: si tratta di un test sulla sua visione strategica a livello globale.

Non mancano le curiosità. Alcuni analisti osservano che Trump, nel suo approccio a Putin, sembra replicare dinamiche interne al suo stile politico: adorare l’immagine del potere, evitare il confronto diretto quando potrebbe costare voti, e trasformare ogni occasione in uno spettacolo mediatico. Peccato che sul campo internazionale, dove le mosse contano più delle dichiarazioni, il teatro rischia di essere insufficiente.

Il conflitto ucraino oggi offre una fotografia chiara: un aggressore logorato, un difensore resiliente e una leadership americana che sembra oscillare tra opportunismo mediatico e retorica nostalgica. Ogni giorno che passa senza sfruttare questa debolezza strategica è un giorno in cui la Russia può riprendere fiato, affinare tattiche e rimettere in gioco la sua influenza. La politica internazionale, diversamente dai talk show, non perdona l’inattività.

Se Trump deciderà di sfruttare questa leva, la posta in gioco è enorme: potrebbe trasformare la debolezza di Mosca in un vantaggio diplomatico e economico senza precedenti, riequilibrando rapporti di forza decenni in costruzione. Se continuerà a ignorarla, rischia di lasciare il campo a una Russia capace di riprendersi lentamente, mentre il mondo osserva con una combinazione di incredulità e frustrazione. La finestra è stretta, la pressione internazionale palpabile, e l’arte della leva strategica, quella vera, rimane una carta non giocata.