An ontology for Conservation in Architecture

Il libro Conservation Process Model (2025), edito da Sapienza Università Editrice in open access (pdf disponibile, 306 pagine, licenza CC BY-NC-ND) è il risultato di un percorso scientifico durato decenni da parte delle professoresse Marta Acierno e Donatella Fiorani, con l’obiettivo ambizioso di definire un’ontologia dedicata al dominio della conservazione architettonica. L’idea cardine: non lasciare che i dati restino “confinati” in silos, ma costruire un linguaggio concettuale che permetta di mettere ordine nel caos, favorire interoperabilità, ragionamento automatico e continuità della conoscenza nel tempo.

Ciò che rende quest’opera unica è il suo carattere “italiano ma internazionale”: parte da casi e contesti italiani (Cartografia del Rischio, centri storici, pratica del restauro), ma si radica saldamente in standard globali (CIDOC CRM) con aspirazioni applicative verso BIM/HBIM e GIS. Non è un manuale, non è un trattato filosofico: è un manifesto concettuale, uno sforzo di formalizzazione che osa mettere ordine nelle ambiguità del restauro. In tempi di “data lake” e “big data senza contesto”, serve qualcuno che metta semantica.

Chi legge questo libro scopre subito (nel primo capitolo) la struttura della versione 1.0 del CPM: classi, proprietà, relazioni. Le autrici non partono da zero: si appoggiano al famosissimo modello di riferimento concettuale CIDOC CRM (ISO 21127), usato da decenni nella comunità heritage-museale per garantire interoperabilità semantica tra sistemi diversi. Il valore del CPM sta nel “best of both worlds”: non scarta il CRM, ma lo estende con classi specifiche per l’architettura e per il restauro.

Ad esempio la classe CP1 Built Entity e sue specializzazioni come Architecture Work o Construction Work permettono di esprimere il fatto che un edificio non è solo “oggetto storico”, ma un organismo complesso con stratificazioni costruttive. Il CPM definisce CP25 Conservation Intervention come distinta rispetto a una semplice modifica (“modification”) per cogliere l’intenzionalità, il vincolo etico e tecnico del restauro. Le classi CP42 Material Decay o CP43 Structural Damage rappresentano fenomeni patologici — non come meri attributi statici, ma come eventi temporali permettendo di tracciare deterioramenti nel tempo, relazionarli alle cause e generare inferenze.

Nel volume non mancano esempi applicativi. Uno dei più interessanti è la Carta del Rischio per i centri storici italiani: qui le autrici introducono la task ontology CdRont che formalizza i dati numerici e le relazioni necessarie per calcolare indici di vulnerabilità urbana. Questo dimostra che il CPM non è “arte filosofica”, ma ha un braccio operativo: può dialogare con GIS, con sistemi di calcolo, con banche dati comunali.

Non è un libro facile da digerire: i concetti sono densi, le relazioni molte, e ci vuole una mente disciplinata per navigare tra classi e proprietà. Ma chi persevera viene ricompensato con una struttura coerente che può servire da bussola per progettisti, storici, restauratori digitali.

Il contesto del modello ontologico nel restauro

Il tema dell’ontologia applicata al patrimonio costruito non è del tutto nuovo: già Tait (2009) si interrogava sul “lo statuto ontologico dell’edificio storico” e sul divario tra il monumento reale e la rappresentazione digitale. Ma l’intensificazione della modellazione semantica post-2010 e l’adozione di tecnologie come semantic web e linked data hanno reso urgente (e praticabile) il salto verso modelli robusti. In architettura-restauro, la complessità è quasi per definizione: stratificazioni, trasformazioni, materiali, diagnosi invisibili. Ci vuole una “chimica concettuale” per mettere ordine.

In letteratura, Acierno e Fiorani già pubblicarono un modello “twofold” (BIM + ontologia) nel 2017 che anticipava molti elementi del libro attuale . Più tardi, l’approccio ontologico per il supporto decisionale è stato ripreso per orientare scelte di intervento in conservazione. Altri autori hanno proposto ontologie specifiche per il danno da sisma, o modelli generali per beni culturali come i digital twin (Heritage Digital Twin ontology). Il CPM si colloca in questa scia, ma con un focus architettonico e con una struttura che pretende di essere pragmatica.

Un rischio, ben noto dagli studiosi di ontologie, è il livello di astrazione troppo alto, che rende difficile l’adozione pratica. Se ciascun progetto definisce la sua mini-ontologia diversa, perdiamo il punto. Il CPM sfida questo problema proponendo un modello “generalizzato ma estendibile”, compatibile con CRM, ma con margine per adattamenti in contesti specifici.


Valore e limite per i professionisti e i sistemi digitali

Per un Technologist come me, per un ingegnere del software o per uno sviluppatore di strumenti BIM/HBIM il CPM è un asset prezioso: è una sorta di “specification document” per chi voglia costruire software per il restauro. È quel che manca: uno schema condiviso che consenta interoperabilità, semantica coerente e ragionamento logico tra moduli (diagnosi, valutazione, piano d’intervento, monitoraggio).

Se vuoi sviluppare un motore di regole, potresti scrivere Reasoner OWL su CPM e generare avvisi tipo “il degrado CP42 in corrispondenza di materiale X richiede diagnosi supplementare Y”. Se vuoi associare modelli BIM a dati storici, potresti mappare entità BIM verso CP20 Construction Work, collegarle agli eventi CP30 Condition Assessment e generare “timeline” del degrado.

Ma il limite è reale: il CPM non (ancora) è universalmente adottato, non ha una vasta libreria di casi pratici estesi (oltre la Carta del Rischio) e non garantisce che ogni entità specifica di un edificio possa essere modellata senza estensioni custom. Serve cultura del dominio e sforzo collaborativo per colmare quei “vuoti locali”.

Dal punto di vista didattico, il volume è un ottimo testo per corsi avanzati su restauro digitale, patrimonio e modelli della conoscenza. Ma non è per tutti: chi non ha familiarità con ontologie, OWL, cardinalità, inferenze rischia di rimanere perso nelle trame concettuali oppure rischia di imparare qualche cosa di nuovo e sicuramente valido.