Il vicepresidente americano J.D. Vance ha fatto il suo ingresso in Israele con l’aria di chi sa di dover parlare di pace in una zona dove la parola stessa sembra un concetto teorico. Il cessate il fuoco a Gaza, in vigore dal 10 ottobre 2025, è fragile, ma Vance non esita a dichiarare che “va meglio di quanto mi aspettassi”. Accanto a lui, Steve Witkoff parla di risultati superiori alle previsioni, mentre Jared Kushner, genero di Donald Trump e uno degli architetti dell’accordo, sottolinea la complessità della transizione: “Entrambe le parti stanno passando da due anni di guerra intensa a una postura di pace”. Tradotto in termini non diplomatici, significa che la tregua è come un piano urbanistico su terreno instabile: teoricamente solida, ma pronta a crollare al primo terremoto di violenza o incomprensione.
Il pragmatismo trumpiano, incarnato da Kushner, non lascia spazio a illusioni romantiche: la pace richiede transizioni reali, equilibri di potere e soprattutto una gestione rigorosa di Hamas. Vance mantiene la cortesia istituzionale, ma non manca di lanciare il monito: se Hamas non collabora, sarà “obliterato”. Il linguaggio è netto, quasi teatrale, un mix di diplomazia e deterrenza, che sembra riflettere la filosofia dell’ex presidente: negoziare senza illusioni, usare la forza come minaccia concreta e gestire ogni passo della tregua come un contratto da far rispettare.
Sul piano operativo, l’approccio americano punta a un equilibrio tra sicurezza immediata e governance futura. Circa 200 soldati statunitensi sono arrivati in Israele, non per occupare Gaza, ma per progettare la futura forza internazionale di stabilizzazione. Turchia e Indonesia sembrano i candidati principali, mentre Giordania, Germania, Gran Bretagna e Danimarca hanno già esposto le loro bandiere come promemoria della presenza internazionale. Il cessate il fuoco è stato testato dai primi scontri e dalle accuse reciproche di violazioni, ma entrambe le parti sembrano impegnate a rispettarlo almeno formalmente.
Gli ostaggi restano il nodo più delicato. Tal Haimi, catturato il 7 ottobre 2023, è tornato alla sua famiglia, ma tredici ostaggi israeliani e decine di corpi palestinesi devono ancora essere restituiti. L’accordo prevede lo scambio di 15 corpi palestinesi per ogni ostaggio israeliano deceduto. Numeri e procedure ricordano la logica di Trump: transazioni nette, scambi concreti e risultati tangibili, senza spazio per mediazioni astratte o attese indefinite.
La realtà umanitaria a Gaza è drammatica. Prezzi alle stelle, banche chiuse, caos economico e dipendenza totale dagli aiuti internazionali. Il Programma Alimentare Mondiale ha inviato oltre 530 camion negli ultimi dieci giorni, sufficienti a nutrire quasi mezzo milione di persone per due settimane. Prima della guerra, il flusso quotidiano era di 500-600 camion. Hamas controlla i mercati, punisce chi gonfia i prezzi e gestisce l’accesso agli aiuti. La politica economica sul terreno sembra un campo di battaglia parallelo: ogni pacco, ogni sacco di farina è un elemento di potere e controllo.
A rendere il quadro ancora più cupo, le notizie sui corpi restituiti parlano di torture e abusi. Legami, ferri, bruciature e fratture indicano ferite profonde, non solo fisiche ma morali. Israele nega maltrattamenti, citando procedure legali e assistenza medica, mentre ex ostaggi israeliani confermano condizioni estreme. In questo contesto, l’approccio di Trump, centrato su negoziati concreti e deterrenza, appare come un tentativo di introdurre ordine in un caos strutturale, un metodo dove la parola pace non basta senza strumenti coercitivi e verificabili.
Il mercato di Deir al-Balah è un microcosmo del disastro economico: un sacco di farina da 12 dollari è salito a 70 e ora si attesta intorno a 30. La vita quotidiana continua a oscillare tra speranza e disperazione, mentre le decisioni americane, la pressione internazionale e la capacità di Hamas di mantenere ordine influenzano ogni singolo passo della popolazione. Il cessate il fuoco resta un equilibrio precario, sostenuto dalla pressione diplomatica, dal pragmatismo americano e dalla necessità di evitare un collasso totale.
Il viaggio di Vance e l’approccio trumpiano incarnato da Kushner dimostrano una strategia chiara: sicurezza immediata, scambi concreti, gestione rigorosa dei nemici e costruzione di un contesto internazionale di supporto. Dietro dichiarazioni pubbliche e sorrisi fotografici, la realtà è che Gaza resta un laboratorio di tensioni, dove la pace è un’ipotesi fragile, e ogni passo falso può trasformare l’ottimismo diplomatico in nuova violenza. Il futuro del cessate il fuoco dipenderà da capacità di controllo, deterrenza e gestione realistica dei flussi umanitari, con il pragmatismo trumpiano come filo conduttore in mezzo al caos.