La Luna, si sa, non aspetta nessuno. Ma sembra che Elon Musk abbia deciso di farla attendere un po’ più del previsto. SpaceX è ufficialmente “in ritardo” nella preparazione di Starship, il veicolo che dovrebbe portare di nuovo l’uomo sulla superficie lunare nell’ambito della missione Artemis III, quella che la NASA sognava di vedere decollare nel 2027 con l’entusiasmo di un film di fantascienza anni Ottanta. Invece, a giudicare dalle parole dell’amministratore facente funzioni della NASA, Sean Duffy, la situazione è più simile a una puntata di Succession ambientata nello spazio.

La frase che ha fatto tremare i falchi di Cape Canaveral è stata semplice e brutale: “Sono in ritardo, e quindi il Presidente vuole assicurarsi che battiamo i cinesi”. Ecco, quando la corsa alla Luna diventa una metafora geopolitica, la narrativa tecnologica si trasforma in una gara d’ego e di potere. SpaceX, scelta nel 2021 per realizzare l’Human Landing System di Artemis III, doveva essere il simbolo della nuova era spaziale americana, un matrimonio perfetto tra pubblico e privato. Ma come in ogni matrimonio, arriva sempre il momento in cui qualcuno guarda altrove.

Quel “sto per rendere più accessibile quel contratto” pronunciato da Duffy suona come una sentenza di divorzio. La NASA, forse stanca dei ritardi, delle esplosioni spettacolari e delle promesse di Musk, ha deciso di riaprire il tavolo delle offerte. Ed ecco che rispunta lui, Jeff Bezos, il miliardario che costruisce razzi con la stessa passione con cui ordina caffè organici su Amazon. La sua Blue Origin, insieme a poche altre aziende con l’ego abbastanza grande da voler arrivare per prima sulla Luna, torna improvvisamente in gioco.

C’è qualcosa di quasi shakespeariano in questa storia. Da un lato, Musk, l’uomo che ha reso il lancio di un razzo un evento mediatico e un meme allo stesso tempo. Dall’altro, Bezos, il magnate che sogna di colonizzare lo spazio come se fosse un nuovo mercato da conquistare, con la calma glaciale di chi ha già vinto tutto sulla Terra. In mezzo, la NASA, un’istituzione che cerca disperatamente di bilanciare ambizione e realtà, progresso e politica, Luna e bilancio federale.

Il problema è che Artemis III non è solo una missione. È una dichiarazione di potenza tecnologica e simbolica. Dopo oltre cinquant’anni dal primo passo di Neil Armstrong, tornare sulla Luna rappresenta per gli Stati Uniti la prova definitiva di non essere stati superati dalla Cina, che nel frattempo costruisce basi lunari robotiche e parla apertamente di estrazione mineraria extraterrestre. Quando Duffy dice che “il Presidente vuole assicurarsi che battiamo i cinesi”, non parla di astronauti, ma di supremazia. E Musk, che ama presentarsi come l’incarnazione dell’innovazione americana, sta rischiando di trasformarsi nel suo principale problema.

Certo, il ritardo di SpaceX non è del tutto inatteso. Starship è il veicolo spaziale più ambizioso mai progettato: un razzo riutilizzabile di 120 metri, capace di portare carichi enormi sulla Luna e, in teoria, un giorno su Marte. Peccato che ogni test sembri un episodio di MythBusters, con esplosioni spettacolari e fumo mediatico incluso. Musk, che alterna dichiarazioni visionarie a post su X (ex Twitter) di dubbio gusto, giura che tutto procede “secondo i piani”. Solo che i piani, nel frattempo, sono cambiati.

Intanto, Bezos gioca una partita più sottile. Dopo aver perso il contratto NASA nel 2021, ha fatto ricorso, ha investito miliardi nella Blue Moon, il lander lunare di Blue Origin, e ha atteso pazientemente il momento giusto per rientrare in scena. Quel momento è arrivato. Duffy ha fatto intendere che la NASA è pronta a considerare offerte multiple, aprendo di fatto una nuova corsa allo spazio, questa volta tutta interna agli Stati Uniti. Una corsa tra miliardari che si contendono la Luna come se fosse un’asta privata di Sotheby’s.

Il lato più ironico è che la sfida tra Musk e Bezos non è più solo industriale, ma profondamente politica. Donald Trump, che durante la sua presidenza aveva trasformato Artemis in un simbolo di rinascita americana, è tornato a fare sentire la sua voce. Dopo un’estate di diverbi con Musk, i due si sono riavvicinati pubblicamente a settembre, mentre Bezos e il CEO di Blue Origin, Dave Limp, hanno avuto i loro incontri con lo stesso Trump. Sembra quasi che la Luna sia diventata il nuovo campo di battaglia elettorale, un modo per proiettare potere e influenza ben oltre l’atmosfera.

In fondo, la corsa alla Luna è sempre stata una questione di ego prima ancora che di scienza. Nel 1969 era la sfida tra Kennedy e Krusciov, oggi è quella tra Musk e Bezos. Solo che, al posto delle tute spaziali argentate e dei razzi Saturn V, abbiamo tweet, conferenze stampa e contratti miliardari che cambiano direzione a seconda dell’umore presidenziale. È la geopolitica del capitale privato applicata allo spazio, dove la NASA diventa il moderatore di una contesa tra titani che non si accontentano più della Terra.

Chi vincerà questa volta non dipenderà solo dalla tecnologia, ma dalla narrativa. Musk sa come dominare l’immaginario collettivo, ma la pazienza del governo americano non è infinita. Bezos, dal canto suo, offre un’immagine più stabile, più corporate, forse meno visionaria ma più rassicurante. La Luna, a questo punto, non è più un traguardo scientifico ma un premio di credibilità. E la NASA, nel dubbio, ha deciso di non mettere tutte le uova nello stesso razzo.

Forse è proprio questo il messaggio implicito di Duffy: l’America non può permettersi di fallire di nuovo davanti ai cinesi, e non può più affidarsi al carisma di un singolo visionario. Musk ha insegnato che il futuro può decollare da un hangar privato, ma anche che l’hubris è un propellente instabile. Bezos, invece, preferisce la strategia del lento accumulo, la pazienza del giocatore di scacchi. E mentre loro due si contendono il cielo, la NASA osserva, calcola, e prepara il prossimo contratto.

Forse un giorno gli storici scriveranno che la vera conquista della Luna del XXI secolo non è stata un salto per l’umanità, ma un passo in più verso la privatizzazione del sogno. O forse, più semplicemente, sarà ricordata come la più costosa guerra d’ego mai finanziata con fondi pubblici.