La scuola tradizionale ha sempre oscillato tra due poli apparentemente inconciliabili: il sapere nozionistico e le abilità pratiche. Oggi, questa dicotomia appare antiquata, quasi ridicola, se consideriamo la velocità con cui le intelligenze artificiali trasformano l’accesso e l’interpretazione dei dati. L’educazione del futuro non può più limitarsi a trasmettere conoscenze preconfezionate o abilità meccaniche, ma deve formare competenze linguistiche capaci di attraversare i diversi “linguaggi dell’informazione”, notazionale, costitutiva e calcolativa. Linguaggio non significa soltanto parole: significa sistemi di simboli, regole, convenzioni, strumenti che permettono di leggere, scrivere e, soprattutto, dare senso al mondo digitale.
Linguistic proficiency, come la definisco in questo contesto, non si ferma alla comprensione passiva. Include produzione accurata, espressione fluente, uso pragmatico contestualizzato e consapevolezza metalinguistica. In altre parole, un individuo capace non solo interpreta informazioni, ma le trasforma, le manipola, le ricrea. Non stiamo parlando di un esercizio accademico astratto: parliamo di abilità necessarie per muoversi tra dataset complessi, protocolli digitali e interfacce interattive senza perdere l’orientamento, e soprattutto senza delegare la responsabilità intellettuale a un algoritmo.
La portata di questa prospettiva è radicale. Primo, ridefinisce l’educazione come creazione di capitale semantico. Non più una mera accumulazione di contenuti, ma lo sviluppo di risorse culturali e intellettuali che danno senso all’esistenza. Gli studenti non sono consumatori passivi, ma contribuenti attivi a un serbatoio collettivo di conoscenza. Un capitale semantico che, se coltivato correttamente, diventa il vero differenziale competitivo in una società dove l’informazione non è solo abbondante, ma plasmabile. Chi domina questi linguaggi, infatti, non si limita a seguire le istruzioni: ne inventa di nuove, crea pattern, sviluppa prototipi concettuali che nessun algoritmo può replicare senza guida.
Secondo, la padronanza dei linguaggi dell’informazione plasma l’identità personale. L’orizzonte dell’azione e della partecipazione si allarga o si restringe in base alla capacità di leggere e scrivere in questi sistemi simbolici. In un mondo post-AI, la soglia tra chi osserva, chi utilizza e chi progetta diventa sfumata. La formazione scolastica tradizionale, con i suoi silos disciplinari, rischia di generare individui funzionali ma non creatori, partecipanti ma non agenti. Preparare studenti come designer della conoscenza significa fornire strumenti per agire criticamente, eticamente e con immaginazione in contesti digitali complessi, dove le conseguenze delle decisioni cognitive si propagano rapidamente e spesso invisibilmente.
Non sorprende che l’approccio sia tanto pratico quanto filosofico. La didattica deve insegnare a leggere e scrivere in linguaggi calcolativi, capaci di modellare fenomeni complessi; in linguaggi costitutivi, che definiscono strutture, processi e sistemi; e in linguaggi notazionali, che catturano il pensiero astratto in forme condivisibili. L’abilità non è fine a se stessa: diventa leva per criticare, rimodellare e progettare informazioni e sistemi culturali. In una società dell’informazione dove il sapere è liquido e interconnesso, la capacità di navigare tra queste reti simboliche diventa sinonimo di potere intellettuale.
Curioso notare come questa visione ribalti l’idea di educazione come veicolo di certezza. La vera competenza emerge dall’incertezza, dalla capacità di fare, disfare e rifare concetti e strumenti, di testare ipotesi e reinventare le regole del gioco informativo. Il rischio per chi resta aggrappato a metodi tradizionali è duplice: diventare consumatore passivo di contenuti, o peggio, subire le scelte algoritmiche senza comprenderle. L’approccio linguistico, al contrario, genera cittadini digitali capaci di modellare la realtà informativa, di espandere il capitale semantico collettivo e di costruire un’identità capace di resistere al livellamento imposto dall’omologazione digitale.
Questa prospettiva impone anche una riflessione sul ruolo delle istituzioni educative. Non più luoghi di trasmissione, ma hub di creazione, sperimentazione e progettazione. L’educazione diventa un laboratorio di significato, un terreno dove la conoscenza e il fare si intrecciano senza soluzione di continuità. In un contesto dove le intelligenze artificiali eseguono compiti prima riservati all’ingegno umano, la sfida non è sostituire, ma elevare: insegnare a concepire e usare strumenti, non solo a seguirne le istruzioni.
La provocazione finale è chiara: se non ripensiamo l’educazione come padronanza dei linguaggi dell’informazione, rischiamo di formare generazioni capaci di consumare dati ma incapaci di generare significato. La capacità di leggere, scrivere e progettare non è un lusso accademico, ma il cuore pulsante di una cittadinanza digitale responsabile. Il capitale semantico diventa la valuta dell’era digitale, e chi lo detiene può ridefinire i confini tra sapere, fare e identità. In questo senso, l’educazione non è più una questione di trasmissione, ma di creazione radicale di senso, in grado di trasformare la conoscenza in potere, e il potere in responsabilità intellettuale.
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