Donald Trump ha riscritto il manuale della geopolitica economica, di nuovo. Durante la sua recente visita in Asia, ha firmato una serie di accordi sui minerali critici che, dietro l’apparente tecnicismo diplomatico, nascondono una mossa strategica di portata globale: ridurre la dipendenza americana dalla Cina nel settore delle terre rare, il cuore pulsante della tecnologia moderna. Non si parla solo di elementi chimici, ma di potere, di catene del valore e di controllo sull’infrastruttura tecnologica del pianeta. La stessa infrastruttura che alimenta semiconduttori, batterie per veicoli elettrici, turbine eoliche e sistemi d’arma avanzati.
L’accordo con il Giappone è il più interessante perché riflette un linguaggio ibrido tra diplomazia e venture capital. Il testo ufficiale parla di “supportare la fornitura di minerali grezzi e processati cruciali per le industrie nazionali dei due paesi”, ma la traduzione economica è più diretta: costruire un ecosistema minerario alternativo a Pechino. Dietro le righe, si intravede la logica di una nuova supply chain mineraria, in cui Tokyo e Washington si impegnano a mappare congiuntamente le fonti di approvvigionamento, a finanziare progetti condivisi e a creare scorte strategiche. L’obiettivo è chiaro: immunizzare le catene produttive occidentali dai rischi di strozzature geopolitiche.
Il documento parla di “azioni concrete entro sei mesi” e della creazione di un gruppo di risposta rapida guidato da funzionari energetici senior. È un linguaggio che sa di emergenza industriale più che di cooperazione accademica. Non è un caso che il Giappone, già dal 2011, abbia iniziato a diversificare le proprie fonti di terre rare con investimenti in Australia e in Francia. L’ultima scommessa è sottomarina: nel 2026 inizieranno i test di estrazione di fanghi ricchi di terre rare a 6.000 metri di profondità al largo di un’isola a sud-est di Tokyo. Il primo progetto del genere al mondo. Chi pensava che la guerra dei chip fosse l’ultima frontiera della competizione tecnologica, dovrà aggiornare il proprio lessico.
L’accordo con la Malesia aggiunge una sfumatura pragmatica, ma non meno strategica. Kuala Lumpur siede su 16 milioni di tonnellate di riserve di terre rare, ma ha vietato l’esportazione del materiale grezzo per proteggere le proprie risorse. Trump ha firmato un memorandum che assicura agli Stati Uniti la continuità della fornitura di magneti e componenti finiti, mentre invita le aziende americane a investire nella filiera locale. È la versione diplomatica del concetto “friendshoring”: creare valore all’interno di economie alleate, evitando la trappola di nuovi monopoli. Il ministro malese dell’energia ha precisato che il divieto all’export rimane, ma che gli investitori stranieri sono benvenuti nelle attività di raffinazione e trasformazione. È una sottile linea politica che consente di proteggere le risorse nazionali senza compromettere le relazioni internazionali.
Il memorandum con la Thailandia ha un tono più esplorativo, quasi sperimentale. Bangkok non dispone ancora di grandi giacimenti noti, ma il documento prevede cooperazione nella ricerca, nello sviluppo e nella condivisione di informazioni su progetti futuri. Il primo ministro Anutin Charnvirakul ha tenuto a sottolineare che l’accordo non mette in discussione i rapporti con la Cina, un messaggio che tradisce la sensibilità geopolitica del sud-est asiatico. Gli Stati Uniti non ottengono diritti esclusivi, ma posizionano un piede nella porta. È il modo americano di piantare bandiere senza sembrare imperialisti: firmare un MOU, attendere le analisi geologiche e intanto costruire relazioni commerciali.
La firma più rilevante dal punto di vista industriale resta però quella australiana. Un accordo da 8,5 miliardi di dollari che prevede la costruzione di impianti di raffinazione e la difesa dei rispettivi mercati da pratiche commerciali scorrette. Entrambi i governi investiranno oltre un miliardo di dollari nei prossimi sei mesi. L’Australia, già partner chiave di Washington nel settore minerario, è l’unico paese occidentale con una catena di produzione di terre rare operativa al di fuori della Cina. Con questo accordo, la collaborazione assume dimensioni strategiche paragonabili al patto Aukus nel campo della difesa. La geopolitica dei minerali critici si sta trasformando nella nuova diplomazia dell’energia.
Washington guarda anche a nord, verso la Groenlandia. Dopo il rifiuto danese alla proposta, ormai leggendaria, di acquistare l’isola, gli Stati Uniti sono tornati con un approccio più sofisticato: finanziamenti mirati. La US Export-Import Bank ha annunciato un prestito fino a 120 milioni di dollari per il progetto Tanbreez, gestito da Critical Metals, destinato all’estrazione di terre rare nel sud della Groenlandia. È la versione artica del nuovo capitalismo minerario: non si comprano più territori, si finanziano risorse strategiche.
Dietro questa corsa ai minerali critici c’è una consapevolezza dolorosa per Washington: la Cina controlla ancora circa il 70% della produzione globale di terre rare e oltre l’85% della raffinazione. Nonostante le sanzioni, le guerre commerciali e le politiche di decoupling, l’Occidente rimane dipendente da Pechino per i materiali che alimentano la transizione energetica. L’ironia è che le stesse aziende che progettano l’auto elettrica o il missile ipersonico americano usano componenti provenienti da Baotou, la “capitale mondiale delle terre rare” cinese.
Il problema non è solo economico, ma sistemico. Le catene di fornitura minerarie sono lunghe, opache e difficili da riorganizzare. Gli impianti di raffinazione richiedono tecnologie ad alta specializzazione e processi chimici complessi. Costruire un ecosistema minerario autonomo significa investire miliardi in infrastrutture e gestire resistenze ambientali, sindacali e politiche. Trump lo sa bene: ogni accordo firmato in Asia è anche un messaggio per gli elettori americani. “Stiamo riportando a casa la produzione”, dice, ma in realtà sta ridisegnando la mappa globale della dipendenza.
La parola chiave è “ridondanza”. Il nuovo paradigma della supply chain mineraria non è più la massima efficienza, ma la massima resilienza. Washington vuole una rete di alleati in grado di fornire alternative rapide in caso di crisi geopolitica. Tokyo porta know-how tecnologico, Canberra offre stabilità politica, Kuala Lumpur e Bangkok garantiscono diversificazione geografica. È una strategia che ricorda la logica del cloud: distribuire i carichi per evitare un single point of failure. Solo che, in questo caso, i “server” sono miniere, impianti di raffinazione e contratti multilaterali.
C’è anche un sottotesto più sottile. La corsa alle terre rare è il preludio a una nuova forma di diplomazia industriale, in cui i paesi non si contendono più petrolio, ma elementi chimici invisibili come il neodimio, il praseodimio o il disprosio. La materia prima del XXI secolo non è più l’oro nero, ma il metallo grigio. E la leadership non si misura in barili, ma in grammi di concentrazione minerale.
In fondo, il messaggio di Trump è chiaro: l’indipendenza economica passa attraverso la geologia. In un mondo dominato da software, intelligenza artificiale e algoritmi predittivi, il potere torna alla materia. È un paradosso quasi poetico. Mentre le big tech inseguono l’etere del cloud computing, la politica torna a scavare nel fango.