Nel confronto geopolitico tra Stati Uniti e Cina non basta parlare solo di dazi e di materie prime, perché la vera scommessa strategica ha un nome meno tangibile: sovranità algoritmica. I fatti recenti indicano che un accordo sulla cessione delle operazioni di TikTok negli Stati Uniti ha avanzato fino alla fase di approvazione e coinvolge un gruppo di investitori statunitensi che comprende figure come Larry Ellison, Silver Lake e altri partner vicini all’amministrazione Trump, con ByteDance che mantiene una quota minore nella nuova struttura. Questa non è più una telenovela per adolescenti: è una negoziazione che intreccia politica, sicurezza nazionale e affari per decine di miliardi.

La portata della piattaforma è enorme e misurabile: circa 170 milioni di utenti negli Stati Uniti, un bacino che rende TikTok una piattaforma di comunicazione politica di massa e un canale pubblicitario di valore strategico. La statistica non è un’iperbole retorica, è il motivo per cui Washington ha trasformato la questione in materia di sicurezza e perché le trattative con Pechino si sono infuocate. Per comprendere il potere di un algoritmo basta osservare quanti occhi può orientare in un solo giorno.

Non bisogna sottovalutare il contraccolpo industriale delle scelte commerciali. La Cina resta dominante nella catena del valore delle terre rare e dei magneti che alimentano sensori e motori. Di conseguenza le restrizioni o le incertezze sulle esportazioni hanno già costretto alcune case automobilistiche a fermare linee di montaggio o a rivedere programmi di produzione, con esempi documentati di fermi temporanei negli stabilimenti Ford e un diffuso allarme tra gli OEM. Questo non è un semplice racconto di prezzi che salgono, è la dimostrazione di una vulnerabilità strategica che spiega perché Pechino mantenga un vantaggio tattico in segmenti chiave della manifattura globale.

L’accordo su TikTok, anche se presentato come una soluzione tecnico-giuridica, va interpretato con attenzione diversa. Non si tratta solo di cedere app e server, ma di stabilire chi controllerà la logica che decide cosa vedi. Il concetto di controllo degli algoritmi di raccomandazione può sembrare astratto, ma il suo impatto è concreto sui consumi, sui flussi dell’opinione pubblica e sulla gestione dell’informazione politica. La domanda centrale è se la proprietà formale della società controllante possa eliminare l’influenza a distanza del Paese d’origine quando i meccanismi principali restano licenziati o sottoposti a supervisione indiretta. Le garanzie sul controllo operativo dell’algoritmo sono infatti state al centro del confronto tra Washington e Pechino.

Il divario di trasparenza non è un dettaglio tecnico ma un elemento strutturale. Gli algoritmi sono codice proprietario, protetto da segreti industriali, e possono essere modificati in modo invisibile, senza che soggetti esterni riescano a verificarne l’effetto. È già stato osservato come piccoli cambiamenti nella logica di raccomandazione possano spostare engagement e visibilità in modo drastico, anche quando il pubblico non percepisce subito la variazione. Piattaforme dove il timone algoritmico è stato spostato per favorire determinati contenuti o profili offrono prove concrete di quanto la tecnologia possa incidere sulla politica e sui mercati dell’attenzione.

Non è scientifico dire che un algoritmo determina un’elezione, ma è realistico sostenere che la sua opacità può alterare il campo informativo in modi imponderabili. La preoccupazione del Congresso americano non nasce dal nulla: si basa sul fatto che le modifiche ai modelli di raccomandazione possono essere implementate di nascosto e influenzare l’opinione pubblica senza che si trovino contromisure efficaci. Il nuovo assetto societario previsto da Washington promette supervisione, ma non garantisce la fine della manipolazione se non esistono strumenti di audit indipendente e limiti contrattuali robusti.

Chi controlla un algoritmo controlla l’attenzione. L’esperienza degli ultimi anni mostra che modificare un motore di raccomandazione significa cambiare rapidamente la visibilità di post, leader o messaggi politici. La lezione pratica di chi ha ottimizzato consensi e visibilità sui social non è accademica, è ingegneria del potere. Il fatto che il team di Trump conosca queste dinamiche da vicino rende il cambio di mano dell’algoritmo qualcosa di molto più profondo di un semplice riassetto di business.

Non si può nemmeno confondere causa ed effetto nel contesto cinese. In Cina gli algoritmi non sono più considerati solo prodotti privati ma servizi di rete soggetti a una regolamentazione precisa e alla supervisione diretta della Cyberspace Administration of China. Le regole impongono trasparenza operativa interna e conformità a valori “mainstream”. Questo quadro normativo rende la sovranità algoritmica cinese molto diversa da quella occidentale e spiega perché Pechino valuti il controllo di un algoritmo come una pedina negoziale più che un tema di sicurezza ideologica.

Il compromesso politico, da parte di Pechino, non ha nulla a che vedere con la simpatia o la diplomazia soft. Xi Jinping valuta ogni concessione come scambio: un algoritmo in mani americane può perdere efficacia come strumento d’influenza, ma diventare leva per ottenere vantaggi su commercio, materie prime o accesso tecnologico. Allo stesso tempo, per gli Stati Uniti, il controllo diretto dell’ecosistema di raccomandazione significa recuperare un frammento di sovranità digitale, una delle monete più rare nel capitalismo del XXI secolo.

Se c’è un messaggio per il lettore tecnologico e per il CEO, è semplice: politica e tecnologia non viaggiano più su binari separati. Sono reti intrecciate dove la sovranità algoritmica è tanto una risorsa economica quanto una difesa strategica. Pensare che il tema sia solo tecnocratico è un errore fatale. Le implicazioni per i mercati, per le catene di fornitura delle terre rare e per la fiducia dei consumatori saranno tangibili, immediate e difficili da tracciare.

Le soluzioni tecniche per la trasparenza algoritmica esistono, ma costano e richiedono una volontà regolatoria decisa. Se il nuovo assetto proprietario di TikTok negli Stati Uniti intende dimostrare che l’algoritmo non sarà usato come strumento d’influenza, servirà più di un contratto notarile: saranno necessari audit indipendenti, controlli diretti sul codice e clausole che sopravvivano ai cambi di proprietà. In assenza di questi strumenti la sovranità algoritmica rimane un concetto vulnerabile, pronto a essere piegato a interpretazioni politiche.

Per chi scrive politica o guida strategie aziendali la lezione è chiara. Non trattare l’algoritmo come un dettaglio tecnico ma come un asset strategico che richiede supervisione congiunta, verifiche tecniche e un quadro di responsabilità pubblica. Questa non è solo un’analisi sull’impatto politico, ma un invito a ripensare le relazioni tra capitale, codice e controllo. In fondo, le parti in gioco sono fossili di potere: alcune tangibili come le terre rare, altre invisibili come i bit che decidono cosa vediamo, ma ugualmente letali se maneggiate con strategia.