Ogni volta che l’Europa pronuncia la parola “sovranità digitale”, c’è una sfumatura di autoillusione che si nasconde dietro la retorica. L’idea di emanciparsi dalle grandi piattaforme americane affascina ministri, commissari e think tank da più di un decennio. Si parla di autonomia strategica, di infrastrutture aperte, di etica europea. Ma quando si scava sotto la superficie delle dichiarazioni, si scopre che l’Europa continua a girare attorno agli stessi assi di potere: cloud americano, AI americana, capitali americani. È come cercare di fare surf in una piscina, sognando l’oceano.
Il lancio del Digital Commons EDIC rappresenta il tentativo più concreto di cambiare questo paradigma. Italia, Francia, Germania e Paesi Bassi hanno deciso di mettere in comune competenze, infrastrutture e visione per costruire un’architettura digitale europea realmente condivisa. L’obiettivo dichiarato è quello di creare beni comuni digitali in settori chiave come intelligenza artificiale, cloud computing, cybersicurezza, geomatica e persino social network. In altre parole, un’Europa che non si limita più a regolare, ma inizia a progettare e produrre.
Ma la domanda vera è se basti un consorzio per invertire vent’anni di dipendenza strutturale. La tecnologia non è un regolamento da scrivere né un principio etico da proclamare. È un ecosistema darwiniano dove sopravvivono solo i modelli scalabili, e dove la velocità vale più della sovranità. Gli Stati Uniti lo hanno capito da tempo: costruiscono infrastrutture e le fanno diventare standard globali. L’Europa invece si innamora delle proprie regole, dimenticando che le regole, senza potenza tecnologica, restano carta.
Il Digital Commons EDIC nasce in un contesto nuovo, però. Dopo la legge italiana sull’Intelligenza Artificiale approvata il 17 settembre, il linguaggio politico sembra essersi spostato da un tono difensivo a uno propositivo. Non più “proteggiamoci dall’AI americana”, ma “costruiamo un’AI europea, aperta, sicura e conforme ai nostri valori”. È una sfumatura semantica che vale più di cento conferenze. Significa passare da una logica di rincorsa a una di proposta, da una dipendenza normativa a una leadership tecnologica condivisa.
Chi conosce la storia industriale sa che la sovranità non si dichiara, si costruisce. E si costruisce solo se il modello economico è sostenibile. Il meccanismo di finanziamento previsto dall’EDIC è interessante proprio per questo: punta a creare un circuito virtuoso di investimento pubblico e privato che favorisca la produzione e la diffusione di tecnologie aperte. In teoria, l’Europa dovrebbe poter finanziare e mantenere i propri stack digitali come un’infrastruttura essenziale, al pari dell’energia o dei trasporti. In pratica, la sfida sarà attrarre talenti, capitali e comunità di sviluppo in un continente che troppo spesso celebra l’innovazione in PowerPoint invece che in codice.
C’è una tensione palpabile tra il pragmatismo tecnologico e l’idealismo politico. Parlare di commons digitali in un mercato dominato da colossi da trilioni di dollari può sembrare ingenuo. Eppure è proprio in questa apparente ingenuità che si nasconde la possibilità di un nuovo paradigma. Se l’Europa riuscisse a trasformare la cooperazione tecnica in vantaggio competitivo, potremmo assistere a qualcosa di simile a ciò che è successo con il protocollo HTTP negli anni Novanta: una tecnologia aperta diventata standard globale proprio perché nessuno la possedeva. L’apertura, se gestita con intelligenza, può diventare la forma più sofisticata di potere.
Il rischio, come sempre, è quello di scivolare nella burocrazia. La storia recente dell’innovazione europea è costellata di iniziative dal nome altisonante che si sono dissolte nella nebbia dei comitati. Gaia-X doveva essere la risposta europea al cloud americano, ma è rimasta un patchwork di linee guida. L’EDIC dovrà dimostrare di non essere un altro acronimo nella collezione di Bruxelles, ma una piattaforma operativa, agile, capace di rilasciare codice e servizi reali in tempi industriali.
La vera discontinuità però è politica. L’Italia, con la sua legge sull’intelligenza artificiale, è riuscita a spostare il baricentro del discorso europeo. Non più periferia tecnologica, ma laboratorio normativo e operativo. Palazzo Chigi ha puntato sul concetto di “innovazione al servizio dell’uomo”, ma la traduzione reale di questa frase sarà nei contratti, nei protocolli, nel software. È un cambio di postura che racconta un’Italia meno spettatrice e più architetto, una nazione che non teme di guidare processi di standardizzazione, di sicurezza e di interoperabilità in chiave europea.
Chi osserva il panorama globale sa che il dibattito sulla sovranità digitale è anche una questione di narrativa. Gli Stati Uniti parlano di libertà, la Cina di armonia, l’Europa di diritti. Ma il futuro digitale si costruisce più con algoritmi che con manifesti. Se il Digital Commons EDIC riuscirà a unire la retorica dei valori con la concretezza della tecnologia, potremmo assistere a una nuova forma di potere: un potere cooperativo, multilivello, che non domina ma orchestra.
La sfida sarà resistere alla tentazione del protezionismo travestito da sovranità. Perché un’Europa chiusa su sé stessa rischia di diventare irrilevante tanto quanto un’Europa dipendente. Il punto non è scegliere tra indipendenza o integrazione, ma costruire un modello che renda l’apertura un vantaggio competitivo e non una vulnerabilità. In questo senso, la logica dei commons digitali rappresenta un interessante ritorno alle origini di Internet, dove il valore non stava nel possesso, ma nella condivisione.
Forse la vera domanda non è se l’Europa possa davvero liberarsi da Big Tech, ma se possa inventarsi una nuova forma di potere tecnologico che non si misuri solo in capitalizzazione, ma in capacità di incidere sui paradigmi. Il giorno in cui un software nato in Europa diventerà lo standard globale senza bisogno di essere acquistato da un fondo americano, allora potremo parlare davvero di sovranità digitale. Fino ad allora, resteremo nel territorio ambiguo dell’aspirazione, ma almeno con un’idea chiara di dove vogliamo andare.