Google definisce Project Suncatcher come un “moonshot” per “scalare il compute per il machine learning nello spazio”, facendo iniziare il ragionamento dal vantaggio energetico: un pannello solare in orbita può essere fino a 8 volte più efficiente rispetto alla Terra, grazie all’assenza di atmosfera, al favore di esposizione solare costante (orbita sincrona alba-tramonto) e alla possibilità di ridurre perdite dovute a nuvole o angoli solari sfavorevoli.

L’architettura proposta è una costellazione di satelliti “modulari”, ciascuno dotato di TPU (Tensor Processing Unit, come quelle della linea Trillium v6e) e collegamenti ottici tra satelliti (free-space optical links) per operare come un sistema di elaborazione distribuito in orbita. I collegamenti di laboratorio hanno già raggiunto 1,6 terabit al secondo con un singolo collegamento bidirezionale (800 Gbps each way) in condizioni controllate di banco.

Sul fronte radiazioni, Google ha stressato le sue TPU Trillium v6e con un fascio di protoni da 67 MeV per testare la dose totale ionizzante (TID) e gli effetti dovuti agli eventi singoli (SEE). Le GPU HBM risultano le componenti più sensibili, ma gli effetti anomali si manifestano dopo ~2 krad(Si), che è quasi tre volte la dose prevista per una missione di 5 anni (circa 750 rad(Si) in condizioni schermate). Non sono stati riscontrati guasti peggiori fino a 15 krad(Si).

I primi obiettivi concreti prevedono una partnership con Planet Labs per lanciare due satelliti prototipo entro l’inizio del 2027 e verificare sul campo sia la resilienza delle TPU sia la fattibilità dei collegamenti ottici inter-satelliti.Google ritiene che, con una forte diminuzione dei costi di lancio (target < 200 USD/kg entro metà anni ’30), il calcolo spaziale potrebbe diventare competitivo con i data center terrestri.

Il modello è affascinante per chi “respira” infrastrutture alte prestazioni, ma ogni elemento nasconde difficoltà letali se non risolte elegantemente.

Energia e raffreddamento. Il vantaggio solare è reale niente atmosfera, irraggiamento diretto e riduce la necessità di batterie pesanti. Però “raffreddamento zero” è un’illusione: anche in vuoto, componenti ad alta densità generano calore che va dissipato tramite radiazione termica (superfici, radiatori). In orbita serve ingegneria termica passiva/attiva sofisticata, altrimenti si rischiano hot spot o degrado accelerato.

Formazioni strettissime e controllo orbitali. Per ottenere collegamenti ottici molto ad alta banda, i satelliti devono trovarsi a pochi km (o anche centinaia di metri) di distanza tra loro e mantenere tali distanze in modo stabile. Le perturbazioni gravitazionali, l’irregolarità del campo terrestre (geoide non perfetto), il drag residuo (specialmente in orbite basse) e le manovre di mantenimento diventano molto complesse da gestire. Google ha usato modelli basati su equazioni di Hill Clohessy Wiltshire e raffinamenti JAX per stimare traiettorie e stabilità.

Comunicazioni ottiche e budget del link. In test di laboratorio si è ottenuto 1,6 Tbps, ma in orbita la distanza, vibrazioni, jitter puntamento, turbolenze ottiche (es. frammenti, microvibrazioni) possono introdurre perdite non trascurabili. Per mantenere un link con potenza ricevuta sufficiente occorre segnale minimo che scala con 1/d², quindi occorre volare molto vicini ma questo rende la costellazione più sensibile a perturbazioni marginali.

Robustezza ai guasti e affidabilità. In orbita ogni componente soggetto a guasti è critico, non puoi “rimpiazzare” facilmente. Le TPU hanno mostrato una resistenza sorprendente, ma il test è su chip singolo in ambiente controllato; l’SB fragili, macchinari di interconnessione, connessioni meccaniche, sistemi di potenza, dispositivi di cablaggio ottico sono tutti vulnerabili. Bisogna progettare con ridondanza, tolleranza agli errori e auto-ripristino.

Economia e costi di lancio. L’equilibrio economico dipenderà da quanto riusciranno a far scendere i costi di lancio e mantenimento orbitale. Google ipotizza < 200 USD/kg. Attualmente certi lanci (verso orbita bassa) costano decine o centinaia di migliaia di dollari per kg, anche con razzi riutilizzabili. Fino a che non arrivi questo livello, il modello resta più un “visionario progetto di R&D” che un business pratico.

Latency verso Terra. Anche se il calcolo avviene in orbita, molti carichi effettivi richiedono latenza minima con cliente terrestre (inferenza in tempo reale, azioni fisiche). I satelliti dovranno comunicare con ground station con velocità altissime e latenza molto bassa. Le linee ottiche ottime intra-constellazione non risolvono automaticamente il collo di bottiglia verso Terra.

Impatto ambientale e astronomico. Non si può ignorare che ogni lancio ha un costo in CO₂ e in perturbazione atmosferica. Far decine di migliaia di satelliti in orbita (per scala) può interferire con osservazioni astronomiche (scie di luce, inquinamento ottico), rischi di collisioni, gestione del deorbit. Qualcuno già ha protestato contro l’invasione orbite in nome dell’astronomia.

Se funziona (non sottolineo “quando”, perché è un salto rischioso), il paradigma dell’infrastruttura AI cambia profondamente: non più centrali concentrate su Terra, ma una griglia distribuita in orbita che segue il “sole”, con potenza probabilmente carbon neutral per l’energia (dopo l’impatto dei lanci). Può abilitare modelli di AI supermassivi indipendenti dalle reti terrestri congestive, con latenza potenzialmente globale uniforme (dipende da dove atterri i risultati).

Ciò rende il valore dell’alto della catena infrastrutturale spaziale strategico: chi controlla il “cielo” controlla il calcolo futuro. Google gioca per posizionarsi lì.

Un rischio che vedo come CEO-tecnologo è che il progetto rientri nei “innovation theatre” se i prototipi non muovono l’ago: serviranno risultati operativi entro 5–10 anni per evitare che questo rimanga pura teoria con slide affascinanti.

In parallelo, rivali (Microsoft, Amazon, nuove startup spaziali) osservano: se Google definisce il “cielo” come piattaforma AI, chi non parte da lì rischia di essere tagliato fuori dal livello dell’infrastruttura planetaria.