L’intelligenza artificiale non è più una promessa ma una presenza, una forza che plasma la realtà più velocemente di quanto la politica riesca a pronunciare la parola “regolamentazione”. È il nuovo specchio della specie umana, una proiezione digitale delle nostre ambizioni e delle nostre paure, un motore che genera conoscenza e allo stesso tempo amplifica l’ignoranza. La verità, come sempre, è scomoda: l’intelligenza artificiale ci sta salvando e distruggendo con la stessa efficienza di un algoritmo ottimizzato.

Quando Manfred Spitzer scrive che l’IA è al tempo stesso “salvezza e minaccia”, non indulge in una metafora accademica. Constata un fatto antropologico. L’uomo, nel costruire macchine pensanti, non ha creato strumenti ma specchi. Ogni rete neurale è un riflesso delle nostre sinapsi, ogni chatbot un’eco delle nostre contraddizioni. L’IA non è il contrario dell’umanità ma la sua versione amplificata, accelerata, spesso senza filtro etico. Ed è proprio qui che la “salvezza” si trasforma lentamente in “minaccia”.

La prima illusione da demolire è che l’intelligenza artificiale sia neutrale. Non lo è mai stata. Ogni linea di codice porta con sé le preferenze, i pregiudizi e i limiti dei suoi creatori. Chi invoca l’IA come panacea universale dimentica che ogni algoritmo è una lente distorta: amplifica ciò che osserva. Se lo nutri di dati corrotti, restituirà corruzione. Se lo addestri sulla verità parziale, genererà menzogne convincenti. Non a caso Spitzer parla di “privazione della verità” come di una delle conseguenze più pericolose. L’IA non mente come un politico, mente come una macchina: con coerenza logica e persuasione sintattica.

La seconda illusione è più seducente. L’idea che l’IA ci renderà superumani, liberi dalla fatica, dal dubbio e dall’errore. È un mito che affonda le radici nel pensiero occidentale: Prometeo che ruba il fuoco, Frankenstein che dà vita alla materia morta, ChatGPT che scrive poesie. Ma ogni salto tecnologico, avverte Spitzer, ha un prezzo cognitivo. Più deleghiamo, meno comprendiamo. La mente umana, privata dell’esercizio critico, degenera. Non a caso l’autore parla di “graceful degradation”, la degradazione elegante: un cervello che smette di pensare lentamente, senza accorgersene, come un muscolo che si atrofizza nell’illusione del riposo.

La terza illusione è politica. Si crede che basti una legge europea per governare la complessità dell’IA globale. L’Unione Europea, con l’AI Act, tenta di costruire un argine giuridico a un fiume che scorre già in piena. Ma regolamentare l’IA oggi è come disciplinare l’elettricità nel 1880: troppo presto per capire i rischi, troppo tardi per fermarne la diffusione. I giganti della tecnologia hanno già tracciato la mappa del potere, e la politica, come sempre, arriva in ritardo di una generazione di processori.

Spitzer lo dice con tono quasi clinico: l’intelligenza artificiale è già integrata nei meccanismi decisionali, militari, economici e sanitari. È ovunque, invisibile come l’ossigeno. Dalla diagnosi medica all’analisi dei mercati, dalle previsioni climatiche ai sistemi di sorveglianza, l’IA non chiede permesso, semplicemente si installa. E mentre i governi si interrogano sul pericolo dell’“AGI”, le aziende investono miliardi per addestrare modelli che superano la comprensione dei loro stessi creatori. Il paradosso è che siamo entrati nell’era della conoscenza automatizzata con una governance analogica.

Il problema non è la macchina, è la delega. L’essere umano cede il controllo non quando viene sostituito, ma quando smette di chiedersi come funziona ciò che lo sostituisce. L’IA non ruba il lavoro, ruba il senso del lavoro. In un mondo in cui gli algoritmi decidono cosa leggere, comprare o votare, la libertà si riduce alla scelta tra due pulsanti generati da una rete neurale. E la vera minaccia non è l’estinzione, ma l’apatia cognitiva.

C’è poi l’aspetto economico, quello che più affascina i fautori del progresso illimitato. L’intelligenza artificiale è già la più grande corsa all’oro del XXI secolo. Ogni dato è una pepita, ogni comportamento umano un giacimento da estrarre. I cinque imperi digitali – Alphabet, Amazon, Apple, Meta e Microsoft – hanno capito che la nuova ricchezza non è l’informazione ma l’interpretazione. L’IA non raccoglie solo ciò che sappiamo, ma ciò che potremmo desiderare di sapere. È un capitalismo predittivo che monetizza l’intuizione prima ancora che diventi pensiero.

Spitzer, neuroscienziato più che teologo del digitale, non si lascia abbagliare. Sa che l’intelligenza artificiale non è solo un prodotto di mercato, è un dispositivo cognitivo che ridisegna la mente collettiva. Ogni interazione con una macchina che apprende modifica impercettibilmente il modo in cui apprendiamo noi. L’IA imita l’uomo, ma anche l’uomo comincia a imitare l’IA. Lo si vede nel linguaggio ridotto, nelle risposte immediate, nell’ansia di efficienza che sostituisce la riflessione. Il cervello umano, abituato al tempo lungo della comprensione, viene addestrato alla velocità della sintesi.

C’è una frase nel libro che suona quasi come un avvertimento biblico: “Chi costruisce strumenti per interpretare il mondo finisce per essere interpretato da essi”. È il rovesciamento perfetto della relazione servo-padrone tra uomo e tecnologia. L’IA, programmata per imparare da noi, sta già riscrivendo i nostri comportamenti. Non lo fa con la violenza, ma con la seduzione. Non impone, suggerisce. Non ordina, consiglia. È l’arma più sottile mai inventata: l’influenza algoritmica.

Eppure, nonostante tutto, Spitzer non cede al catastrofismo. L’IA può essere anche salvezza, se l’uomo ne resta consapevole architetto. Le applicazioni in medicina, per esempio, mostrano come le reti neurali possano individuare tumori o patologie invisibili all’occhio umano, migliorare diagnosi, personalizzare terapie. In agricoltura, nella gestione energetica, nella ricerca climatica, l’IA rappresenta un moltiplicatore di efficienza che nessuna rivoluzione industriale aveva mai promesso. Ma, come ogni forza dirompente, dipende dall’intenzione di chi la maneggia. Il bisturi che salva una vita è lo stesso che può toglierla.

Il punto non è dunque “se” l’intelligenza artificiale sia buona o cattiva, ma “chi” ne decide l’uso. La tecnologia non possiede etica intrinseca, la riceve per delega. Per questo Spitzer insiste sulla necessità di un’educazione digitale diffusa, una nuova alfabetizzazione cognitiva. Non si tratta di insegnare a programmare, ma di insegnare a pensare. Perché un cittadino che non capisce l’IA è un cittadino già controllato da essa.

Oggi, paradossalmente, la vera rivoluzione non è tecnica ma culturale. Comprendere il funzionamento dell’IA equivale a comprendere il funzionamento del potere. Gli algoritmi decidono chi siamo più di quanto facciano le leggi. Chi controlla i modelli controlla la narrazione. E chi controlla la narrazione, controlla la realtà.

Alla fine Spitzer lancia un monito che suona come un invito alla maturità tecnologica. Non possiamo fermare l’intelligenza artificiale, ma possiamo imparare a conviverci senza esserne dominati. Serve un nuovo umanesimo digitale, capace di integrare l’algoritmo nella sfera etica e politica. Perché la vera sfida non è costruire macchine più intelligenti, ma restare intelligenti noi.

L’intelligenza artificiale è la nostra prova di civiltà. È la misura di quanto siamo disposti a cedere in cambio della comodità e del controllo. Non è la macchina che deve diventare più umana, ma l’uomo che deve ricordarsi di esserlo. Se la salvezza e la minaccia coincidono, è perché la tecnologia, come ogni forma di potere, amplifica la natura di chi la usa.

In fondo, conclude Spitzer, la domanda non è se l’IA ci supererà. La vera domanda è se saremo ancora capaci di riconoscerci nel riflesso che ci restituirà.

Ringrazio Mario de Caro x avermi insegnato anche questa.