Alex Karp non è un uomo che pesa le parole. Quando ha definito “bats*** crazy” la scommessa di Michael Burry contro Palantir e Nvidia, ha colpito un nervo scoperto del capitalismo tecnologico contemporaneo. Perché scommettere contro chi sta letteralmente costruendo l’infrastruttura cognitiva del mondo moderno è più di un azzardo finanziario, è un atto di fede al contrario.

Burry, il leggendario protagonista de The Big Short, colui che vide il collasso immobiliare del 2008 prima di tutti, oggi punta al ribasso sull’IA. E Karp lo accusa, non senza una certa ironia, di avere perso il senso della realtà digitale.

In fondo, Palantir e Nvidia incarnano due poli della stessa rivoluzione. Da un lato i chip, i muscoli del calcolo che addestrano modelli linguistici e predittivi con velocità spaventose. Dall’altro l’ontologia dei dati, quella che Karp chiama “la struttura della verità numerica”, l’architettura invisibile che consente alle organizzazioni di trasformare informazione grezza in decisione operativa. Scommettere contro questi due ecosistemi equivale a scommettere contro la direzione stessa del capitalismo cognitivo, quello che converte il sapere in margine operativo e la complessità in vantaggio competitivo.

La provocazione di Karp, però, va oltre la difesa aziendale. È una dichiarazione ideologica. Palantir è una compagnia che vive nell’intersezione fra sicurezza nazionale e analisi predittiva, fra il potere dei dati e la necessità di interpretarli. Chi la conosce sa che il suo business model non è “vendere software”, ma orchestrare l’informazione per chi deve prendere decisioni strategiche in contesti caotici. È una filosofia manageriale travestita da piattaforma tecnologica. Quando Karp parla di “ontologia”, in realtà parla del modo in cui le aziende dovrebbero pensare, non solo dei sistemi che dovrebbero usare.

Il paradosso di Burry è emblematico di un certo scetticismo ciclico che attraversa Wall Street ogni volta che un’innovazione diventa egemonica. Gli stessi che ridevano del cloud nel 2010 oggi lo chiamano “foundational infrastructure”. Gli stessi che consideravano il machine learning un hype accademico lo usano per ottimizzare portafogli e trading automatico. Forse la scommessa di Burry non è tanto contro l’IA in sé, quanto contro la sua valutazione. Ma c’è un errore strutturale in questa logica: l’IA non è una bolla speculativa, è una curva esponenziale. E chi si mette contro una curva esponenziale di solito viene spazzato via.

Mentre Burry apre short position, IBM chiude un ciclo. Il colosso di Armonk prepara l’ennesima ristrutturazione, tagliando migliaia di posti di lavoro per spostarsi verso segmenti più “ad alta crescita” come software e servizi. Una mossa prevedibile, quasi rituale, che conferma la difficoltà dei grandi player storici nel reinventarsi davvero. IBM ha tentato per anni di farsi riconoscere come protagonista dell’intelligenza artificiale con Watson, ma oggi è Palantir a rappresentare ciò che IBM voleva essere: una piattaforma decisionale intelligente e flessibile, non un museo del software enterprise.

Il contrasto tra IBM che taglia e Palantir che accelera racconta più di mille report sullo stato dell’economia digitale. È la fotografia di un capitalismo bifronte, dove alcune aziende si muovono a velocità quantistica e altre arrancano dietro la narrativa della “trasformazione digitale” come se fosse un esercizio di branding. Palantir non trasforma, impone. E questo, nel linguaggio di Karp, è ciò che distingue chi guida il futuro da chi lo subisce.

Nvidia, nel frattempo, continua a stampare utili con la stessa regolarità con cui i suoi chip addestrano modelli generativi. È il perfetto complemento all’universo Palantir: il ferro e il fuoco, la potenza computazionale che rende possibile la traduzione della realtà in previsioni. Burry, insomma, ha scelto di scommettere contro la combinazione più esplosiva del capitalismo tecnologico: hardware e conoscenza, materia e significato. Forse una mossa brillante se si guarda il breve termine dei multipli, ma suicida se si osserva la traiettoria strategica dei prossimi dieci anni.

C’è anche una componente psicologica in questo scontro. Karp rappresenta l’archetipo del visionario paranoico, Burry quello del realista disilluso. Il primo crede nel potere trasformativo della tecnologia, il secondo nella fragilità strutturale dei mercati. È una partita tra fede e analisi, tra chi costruisce il futuro e chi scommette sulla sua implosione. La verità, probabilmente, sta nel mezzo: l’intelligenza artificiale generativa attraverserà fasi di euforia e contrazione, ma non tornerà mai indietro. È già la nuova infrastruttura del potere, e chi non la capisce finirà come IBM, impegnata a “ribilanciare” personale mentre altri ridefiniscono la realtà.

Ciò che rende questa vicenda interessante, dal punto di vista strategico, è la collisione tra visione e valore. Palantir, pur odiata da una parte di Wall Street, rappresenta oggi una delle poche aziende con un modello realmente difendibile. Il suo vantaggio competitivo non è la tecnologia in sé, ma la capacità di inserirsi nel ciclo decisionale dei governi e delle imprese con un mix di software, consulenza e potere simbolico. È la nuova McKinsey dell’era algoritmica, solo che invece di PowerPoint vende verità strutturate in codice.

Quando Karp dice che “shortare l’ontologia è folle”, in realtà lancia una sfida epistemologica. Sta dicendo che il futuro appartiene a chi riesce a dare un senso coerente all’enorme quantità di dati generata da ogni processo economico. È la supremazia della comprensione sulla speculazione. In questo senso, la vera scommessa di Burry non è contro Palantir o Nvidia, ma contro la capacità dell’umanità di costruire strumenti che capiscano se stessa. Una scommessa che, storicamente, il mercato tende a perdere.

Le keyword principali di questa dinamica sono chiare e perfettamente allineate con la semantica digitale di oggi: intelligenza artificiale, Palantir e Nvidia come vettori del nuovo capitalismo cognitivo. Sui motori di ricerca e dentro l’ecosistema della Google Search Generative Experience, queste entità si fondono in un’unica narrativa: quella di un’economia che si autoalimenta di conoscenza, dove il valore non si produce, si predice. E forse è proprio questo che Burry non accetta, l’idea che il mercato non sia più guidato dall’intuizione umana, ma da un algoritmo che la replica meglio.

In definitiva, Karp non difende solo Palantir. Difende la logica stessa dell’intelligenza artificiale come motore evolutivo dell’impresa moderna. Burry, come nel 2008, sfida il consenso e potrebbe avere ragione nel breve. Ma chi comprende che il potere oggi risiede nell’infrastruttura cognitiva, non nel debito, sa che stavolta il “big short” rischia di essere la vera follia.