Adottare l’intelligenza artificiale non è più una scelta stilistica che distingue le aziende visionarie da quelle caute, è la linea di demarcazione tra chi ha capito il nuovo ciclo economico e chi lo subirà. La terza edizione del Cisco AI Readiness Index mostra un quadro quasi crudele nella sua chiarezza: una piccola élite di organizzazioni italiane, il famoso 10 percento dei pacesetter, ha imparato a trasformare l’AI in valore misurabile mentre la maggior parte osserva la trasformazione da bordo campo, sperando che la partita sia ancora lunga. Il contesto globale non è diverso, con il 13 percento di aziende pienamente pronte a sfruttare l’AI e a capitalizzare la nuova frontiera della produttività. La sorprendente scoperta è che la preparazione non è un effetto collaterale della ricchezza o delle dimensioni, ma una disciplina. Una scelta che paga, dato che le aziende italiane già pronte hanno cinque volte più probabilità di trasformare un progetto pilota in un’iniziativa operativa e il 60 percento di probabilità in più di generare valore misurabile.

Lo scenario sembra scritto per un romanzo di economia industriale con qualche nota distopica. Gli agenti AI avanzano, il 77 percento delle aziende italiane prevede di implementarli e più di un terzo è convinto che li vedrà affiancare i dipendenti entro dodici mesi. Il problema è che non basta desiderarli. Le infrastrutture digitali del paese spesso non sono pronte per un mondo in cui l’AI non risponde soltanto, agisce. Il paradosso è elegante nella sua ironia tecnica: si vuole un assistente instancabile che lavori in autonomia, ma lo si vuole far girare su architetture che faticano persino a gestire applicazioni reattive. È come montare un motore da Formula 1 su un telaio arrugginito.

Lo studio Cisco racconta qualcosa che molti CTO conoscono troppo bene. Il debito infrastrutturale è la nuova tassa sull’innovazione. Si accumula silenziosamente, cresce per inerzia, diventa un freno reale alla creazione di valore, proprio come il vecchio debito tecnologico che rallentava la trasformazione digitale. Un dirigente particolarmente schietto, in una conversazione privata, lo ha definito un killer silenzioso. L’immagine forse è forte, ma il quadro non è così distante. In Italia il 45 percento delle aziende prevede che i carichi di lavoro cresceranno di oltre il 30 percento nei prossimi tre anni, ma solo una su cinque ha una capacità GPU solida. Il 62 percento non riesce a centralizzare i dati e appena il 22 percento si sente pronto a individuare o prevenire minacce specifiche legate all’AI. Non è un dettaglio, è il cuore del problema.

Chi guarda al comportamento dei pacesetter capisce che la differenza non nasce da un colpo di fortuna. Quasi tutti hanno un percorso chiaro per l’adozione dell’AI, il 99 percento ha già definito i passaggi, e il 91 percento possiede un piano di change management degno di questo nome. In Italia queste percentuali crollano rispettivamente al 42 e al 24 percento. Non è difficile intuire perché alcuni corrono e altri arrancano. Le aziende mature destinano budget coerenti con le ambizioni, il 79 percento considera l’AI la principale priorità di investimento, mentre in Italia si arriva appena al 19 percento. È un gap strategico che ricorda certe mancate innovazioni industriali degli anni novanta, quando si confondeva prudenza con immobilismo.

Il vantaggio competitivo dei pacesetter non si limita alla strategia, scorre nella struttura stessa dell’azienda. Il 71 percento ha reti flessibili, pronte a scalare istantaneamente per sostenere carichi AI complessi. In Italia, l’8 percento. La distanza tecnologica non è un’impressione, è matematica. Il 77 percento dei leader globali investirà entro un anno per ampliare la capacità dei data center, consapevole che la scalabilità è la nuova moneta dell’innovazione. Le aziende italiane ci stanno arrivando, ma in ritardo, con appena il 43 percento che prevede investimenti in questa direzione.

Un aspetto quasi poetico, se vogliamo cercare poesia nei dataset, è la maturità dei processi di innovazione. Il 62 percento dei pacesetter ha definito un metodo ripetibile per generare e scalare casi d’uso AI. Le aziende italiane si fermano al 10 percento. Il dato forse più rivelatore è che tre quarti dei leader globali hanno già finalizzato questi casi d’uso, mentre in Italia il dato è il 15 percento. Non si tratta solo di capacità di esecuzione, ma di un diverso rapporto con il tempo. I pacesetter vivono il presente come se stessero già risolvendo i problemi del futuro.

Uno dei confini più affascinanti di questa trasformazione è la sicurezza. I leader trattano la sicurezza come una variabile primaria del valore, non come un dipartimento da finanziare quando avanza budget. L’87 percento è pienamente consapevole delle minacce legate all’AI, il 62 percento ha già integrato l’intelligenza artificiale nei controlli di identità e sicurezza e il 75 percento è pronto a gestire in modo sicuro gli agenti AI. In Italia questi valori scendono rispettivamente al 35, 23 e 32 percento. La differenza sembra quasi una citazione di un vecchio manuale di strategia militare che diceva che la sicurezza non è ciò che si fa quando si ha paura, ma ciò che si fa quando si è preparati.

Il cuore strategico del Cisco AI Readiness Index è la relazione tra infrastruttura, governance e creazione di valore. I pacesetter dichiarano che il 90 percento ha già aumentato profittabilità, produttività e capacità di innovazione proprio grazie al loro approccio sistematico all’AI. È un dato che pesa molto più delle percentuali che descrivono la preparazione. La correlazione tra disciplina tecnologica e risultati di business è la conferma definitiva che l’AI non è una moda ma una leva strutturale.

Lo scenario italiano presenta luci e ombre. Il 77 percento delle organizzazioni vuole implementare agenti AI e il 34 percento prevede di usarli accanto ai dipendenti entro un anno. È una dichiarazione di ambizione notevole. Il problema è che nel 44 percento dei casi le reti aziendali non sono pronte a gestire l’aumento della complessità. Il risultato è un curioso paradosso: le aziende desiderano un futuro autonomo, ma vivono ancora in un presente manuale. Questo divario non è solo tecnico, è culturale. I pacesetter, infatti, non sono immuni dal debito infrastrutturale, ma sembrano essere geneticamente predisposti a non ignorarlo. Lo misurano, lo affrontano e soprattutto lo anticipano.

La lezione più interessante di questa ricerca è che il valore dell’AI non nasce dall’algoritmo ma dall’orchestrazione. La preparazione è il vero discriminante. Si può investire in modelli, piattaforme o talenti, ma senza un’infrastruttura capace di crescere e senza una governance che sappia guidare la complessità si ottiene un’AI che promette molto e mantiene poco. È la differenza tra chi cavalca il cambiamento e chi ne osserva l’onda sperando di non essere travolto.

Il quadro che emerge è chiaro. Le aziende pronte stanno già creando valore mentre le altre si trovano nella scomoda posizione di dover correre a recuperare terreno. L’AI non aspetta e nemmeno il mercato. Con buona pace delle aziende che continuano a rimandare il futuro al prossimo trimestre.

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