La scena è quasi surreale. Per anni gli Stati Uniti hanno dominato l’innovazione nell’intelligenza artificiale con la stessa sicurezza con cui Wall Street domina la finanza. Poi, all’improvviso, compare un report di MIT e Hugging Face che indica un ribaltamento completo: la Cina è oggi la nuova forza egemone nell’ecosistema open dell’AI, mentre i laboratori statunitensi sembrano scomparsi dalla mappa come se qualcuno avesse staccato la spina a un’intera stagione di leadership. In molti fingono stupore, ma a ben vedere il finale era scritto da tempo, solo che nessuno voleva leggerlo.
Accade raramente che un settore tecnologico viva una transizione così rapida e così brutale. I numeri sono spietati e raccontano una storia quasi imbarazzante. La Cina domina con il 17,1 per cento dei download dei modelli su Hugging Face. Gli Stati Uniti seguono con il 15,8 per cento. DeepSeek e Qwen da soli valgono il 14,2 per cento. Nel frattempo OpenAI, Google e Meta risultano semplicemente assenti dalle classifiche, e non per distrazione. Sono realmente fuori dal gioco open. È come se la Silicon Valley avesse deciso che l’open source fosse diventato improvvisamente volgare, mentre Pechino se lo è portato via con un sorriso appena accennato.
Colpisce in modo quasi teatrale la scelta di molti gruppi statunitensi di abbandonare la logica dei pesi aperti per rifugiarsi nel modello dell’API chiusa, del paywall e della monetizzazione a ogni micro chiamata. Dopo anni di retorica sulla democratizzazione dell’AI, gli Stati Uniti hanno fatto ciò che fanno sempre. Hanno chiuso le porte quando il gioco si è fatto serio. Meta non ha ancora rilasciato LLaMA 3. OpenAI ha deciso che le release open erano una follia giovanile. Google ha eretto barriere attorno ai livelli Cloud e Pro come se stesse proteggendo Fort Knox. La Cina ha osservato tutto questo con la pazienza glaciale di chi attende che l’avversario si auto elimini.
Accade qualcosa di più profondo di un semplice sorpasso nei download. È un cambio di paradigma nel concetto stesso di innovazione. DeepSeek rilascia checkpoint con una velocità che sembra ispirata alla logistica del commercio elettronico. Qwen aggiorna la suite multilingue quasi ogni settimana, un ritmo che ricorda le manovre tattiche degli eserciti moderni. L’ecosistema cinese non è più una curiosità periferica. È un sistema industriale potente che ha compreso che la partita dell’AI si gioca su due fronti simultanei. L’hardware e i pesi. Tutto ciò che gli Stati Uniti stanno trascurando mentre inseguono valutazioni da IPO e contratti da datacenter.
Ci si trova così davanti a un paradosso affascinante. La patria originaria dell’open source viene superata proprio da quella nazione che per decenni è stata descritta come il regno della chiusura e del controllo. La Cina ha intuito qualcosa che in Occidente si fa ancora fatica a vedere. L’open non è solo un gesto etico. È un’arma competitiva. È un acceleratore industriale. È il modo più rapido per colonizzare l’adozione globale di un’intera generazione di modelli. Una citazione attribuita a Deng Xiaoping potrebbe adattarsi perfettamente a questo scenario. Non importa di che colore sia il modello, purché scarichi. E i modelli cinesi stanno scaricando ovunque.
Il sorpasso è reso ancora più clamoroso dal fatto che l’unico contributo statunitense percepibile nel ranking contemporaneo sia Comfy, con un modesto 5,4 per cento. Non si tratta di denigrare il lavoro dei team americani. Si tratta di constatare che la strategia industriale dell’AI negli Stati Uniti ha scelto il sentiero della rendita e non quello dell’egemonia. L’open non premia la prudenza. Premia la velocità, la scalabilità spontanea e la capacità di colonizzare lo stack degli sviluppatori prima che lo faccia qualcun altro.
Ci si potrebbe domandare se tutto questo abbia anche un lato oscuro. La risposta è ovviamente sì. È noto che alcuni modelli cinesi possano contenere forme di filtraggio politico. È altrettanto noto che la governance tecnologica cinese operi attraverso meccanismi di controllo che in Occidente farebbero rizzare i capelli a più di un regolatore europeo. Tuttavia, il settore open non è mai stato immune da ideologie, bias o forze geopolitiche. Chi ha pensato per anni che l’AI open fosse un luogo neutrale e incontaminato ha fatto un errore di valutazione degno di un manuale di geopolitica per principianti.
Il punto cruciale è che la Cina sta giocando una partita industriale, non un esercizio accademico. Un mercato globale da due miliardi e duecento milioni di download in dodici mesi non è un hobby da garage. È una corsa al potere tecnologico che deciderà chi controllerà gli standard cognitivi delle applicazioni del futuro. Ogni modello scaricato rappresenta un pezzetto di infra mentalità, un piccolo atomo di influenza distribuito nel mondo. Più un modello viene scaricato, più diventa la base implicita per milioni di sistemi aziendali e consumer. Chi domina il download oggi, domina la logica domani.
Accade così un fenomeno che pochi analisti occidentali hanno il coraggio di ammettere. L’AI non è più una corsa solo algoritmica. È una corsa industriale. E l’industria cinese ha qualcosa che ai competitor americani negli ultimi anni è mancato. Una strategia coerente. Una visione di lungo periodo. Una capacità di rilasciare e iterare che ricorda la stagione d’oro del software libero, quando Linus Torvalds caricava patch con la precisione di un orologiaio finlandese. Solo che oggi la scena non appartiene più a Helsinki o a San Francisco. Appartiene a Pechino, Hangzhou e Shenzhen.
Sorprende e diverte notare come, ogni volta che la Cina supera gli Stati Uniti in un settore strategico, la narrativa occidentale tenti di minimizzare parlando di peculiarità locali, di contesti differenti, di standard non comparabili. È un riflesso che nasconde disagio. Di fronte al sorpasso cinese nell’open AI, questa retorica non regge. I numeri sono globali. Gli utenti sono globali. Gli sviluppatori sono globali. L’ecosistema è globale. Non ci sono riserve indiane in cui rifugiarsi dicendo che l’Occidente mantiene comunque il primato morale. Qui si tratta di download, adozione e vantaggi competitivi.
La parte più interessante è che non siamo affatto all’apice di questa transizione. Siamo all’inizio. Il ritmo con cui DeepSeek e Qwen stanno rilasciando nuove versioni ha un impatto quasi psicologico sul mercato. Gli sviluppatori cominciano a percepire che i modelli cinesi sono più rapidi da ottenere, più semplici da modificare, più facili da integrare in pipeline reali. Non esiste nulla di più potente della preferenza degli sviluppatori. È la stessa forza che vent’anni fa ha reso Linux il cuore dei datacenter globali mentre le grandi corporation del software sorridevano con un misto di superbia e incredulità.
La conclusione implicita, per chi sa leggere tra le righe, è che gli Stati Uniti dovranno decidere se tornare a giocare la carta dell’open o accettare di essere follower in un campo che hanno inventato loro. Le aziende americane possono ancora rispondere, ma il tempo non è infinito. Il vantaggio cinese cresce ogni settimana, non ogni trimestre. Ogni nuovo checkpoint rilasciato da DeepSeek o ogni aggiornamento di Qwen aumenta l’inerzia culturale e tecnica dell’ecosistema. Ogni giorno che passa senza un modello open statunitense competitivo non è neutrale. È una perdita secca di influenza.
La provocazione finale è evidente. Se questo trend continua, tra qualche anno gli Stati Uniti potrebbero ritrovarsi nella stessa posizione in cui si trovò l’Europa durante la rivoluzione digitale. Potenti, ricchi, regolatori attivi, ma irrilevanti nella produzione dei mattoni tecnologici fondamentali. Un continente che consuma innovazione prodotta altrove. Un mercato prestigioso ma non più un motore. La Cina ha capito che l’open AI è la nuova manifattura. E sta costruendo fabbriche di modelli con una determinazione che assomiglia molto alla fase in cui si è presa il monopolio mondiale dei pannelli solari.
La storia, oggi, sembra muoversi in una sola direzione. La domanda è semplice. Gli Stati Uniti vorranno davvero restare spettatori di questa trasformazione oppure sceglieranno finalmente di tornare in campo?