La domanda cruciale adesso non è se gli agenti d’intelligenza artificiale (AI) cambieranno il modo in cui lavoriamo. È come li governeremo. Il WEF, in collaborazione con Capgemini, ha pubblicato un report intitolato AI Agents in Action: Foundations for Evaluation and Governance che segna un punto di svolta: l’adozione massiva di agenti autonomi – spesso sotto‑stimata nei rischi – richiede un’architettura di fiducia, un sistema di protezioni, un rigoroso onboarding: come se fosse un nuovo dipendente, non un plugin.
Il documento mette in fila una serie di concetti che fino a ieri suonavano teorici. Definisce le fondamenta tecniche degli “AI agents” (architettura, interoperabilità, cybersicurezza), propone una classificazione su sette dimensioni per descrivere il ruolo di un agente: funzione, ruolo, prevedibilità, autonomia, autorità, contesto d’uso, ambiente operativo. Introduce un quadro per test real‑world: robustezza, uso di tool, affidabilità operativa, soprattutto in contesti complessi. E propone un modello di governance progressiva: più un agente è autonomo e potente, più richiede controlli, monitoraggio, tracciabilità.
Ha ragione chi dice che il divario fra velocità dell’innovazione e lentezza della governance è diventato “troppo grande per essere ignorato”. Il report non è un manuale da appendere in ufficio, ma una sveglia per chi – come te, con decenni di esperienza tecnologica e leadership – deve decidere se e come integrare agenti AI nelle organizzazioni.
Curiosità che punge: secondo il WEF l’adozione di agenti non è un lusso per startup visionarie ma un obiettivo concreto per il 82 % dei dirigenti nel giro di 1‑3 anni. Hai letto bene: non “alcuni”, non “forse”, ma quasi tutti. Non sorprende che stiano costruendo strutture di governance prima che la “corsa” diventi caos.
Un dettaglio spesso trascurato: fiducia non è solo competenza tecnica. Il report insiste sul fatto che bisogna gestire l’intenzione (intent) e la prevedibilità, rendere ogni azione tracciabile, ogni identità agente definita. In un mondo dove le architetture diventano multi‑agente, l’allineamento semantico, l’interoperabilità e la sicurezza sono questioni di responsabilità e reputazione — non di marketing.
E c’è un’altra implicazione politica/strategica: il WEF non propone un semplice “best practices”, ma una struttura che può scalare con l’autonomia e la complessità dei sistemi. Non siamo più nel regno degli script banalizzati. Siamo all’inizio di ecosistemi agent‑to‑agent, dove errori, drift semantico, fallimenti a cascata non sono fantascienza ma rischi reali.
Leggendo tra le righe appare chiaro che i veri vincitori — o i veri rovinatori — saranno quelli capaci di governare: non chi monta l’ultimo LLM sull’infrastruttura cloud, ma chi costruisce l’organizzazione che gestisce quell’agente come fosse un team di ingegneri, con auditing, logging, ruoli chiari e governance dimensionata alla potenza reale.
Il report del WEF non è un allarme moralistico, ma un invito al rigore strutturale. A guardare la AI non come giocattolo sperimentale, ma come infrastruttura mission‑critical. Per te, con oltre 30 anni di esperienza e una vision di trasformazione digitale, è un promemoria netto: la prossima sfida non sarà “che agenti scegliamo”, ma “come li governiamo prima che governino noi”.