Le città della Bay Area e del Paese si sono organizzate per 
le proteste “No Kings”, in concomitanza con 
la parata militare del presidente Donald Trump a Washington, DC. 

C’è una scena perfetta, degna di un film distopico, che si sta consumando per le strade di San Francisco: cittadini, spesso giovani e arrabbiati, si scagliano contro innocui taxi bianchi senza conducente, Waymo, come se fossero emissari di un potere alieno. E in un certo senso lo sono. Perché questi veicoli non sono solo mezzi di trasporto autonomi, sono strumenti mobili di sorveglianza capitalista, silenziosi, efficienti, e soprattutto legali.

Nella loro architettura, ci sono occhi ovunque. LIDAR, videocamere a 360 gradi, sensori ambientali. Registrano tutto, sempre. Ma il punto non è più la sicurezza. Il punto è il potere.

mappa delle telecamere

Siamo passati dalla promessa utopica della “smart city” alla disillusione distopica della watched city. E la narrativa “se non hai nulla da nascondere, non hai nulla da temere” è diventata il meme preferito dei regimi in erba, delle big tech assetate di dati, e dei cittadini benpensanti che si accontentano del controllo in cambio di un senso di ordine. Ma le definizioni di “colpa” o “reato” sono scritte su carta velina. E i governi autoritari — anche quelli col trucco liberale ben applicato — sono maestri nel cambiarle in corso d’opera.

Il sorvegliante, oggi, è automatizzato. Non dorme mai. E memorizza tutto, anche quello che non sai ancora che un giorno potrà essere incriminato.

È tutto molto legale. È tutto molto pulito.

La vera novità non è il fatto che siamo osservati. È che siamo osservati da agenti non umani — robotaxi, occhiali AR, frigoriferi intelligenti — e che questi agenti hanno datori di lavoro senza volto. La vera minaccia è la banalità della sorveglianza: è talmente integrata nella quotidianità da sembrare innocua. Come l’acqua calda che cuoce la rana.

Oggi ti registrano mentre attraversi la strada. Domani, quell’immagine diventa parte di una ricostruzione “automatica” di una rete sovversiva. Perché protestavi contro la detenzione dei migranti. O semplicemente perché ti sei avvicinato a un assembramento che il software ha identificato come “potenzialmente instabile”.

E se ti stai chiedendo “ma che male c’è?”, prova a spostare questa scena in uno dei 64 paesi dove l’omosessualità è ancora criminalizzata. Dove un bacio rubato davanti a un’auto a guida autonoma può diventare una condanna. Il veicolo non ha pregiudizi, vero. Ma i sistemi che lo governano sono programmati da esseri umani. E i dati raccolti non vengono solo archiviati, vengono interpretati, venduti, incrociati.

Il paradosso è questo: l’intelligenza artificiale di sorveglianza funziona meglio proprio nei regimi meno democratici. Più potere ha chi osserva, più efficace sarà l’occhio digitale. Un matrimonio perfetto tra autoritarismo e automazione.

Ecco perché quegli attacchi ai robotaxi sono più di semplici vandalismi. Sono un atto simbolico. Una sorta di “luddismo 2.0” che non combatte le macchine, ma il modello economico e politico che le ha messe lì. È un rifiuto dell’algoritmo come giudice, del database come memoria ufficiale della nostra vita pubblica. Non è un rifiuto della tecnologia, ma del contesto ideologico che la plasma.

Dietro Waymo, c’è Alphabet, c’è Google, c’è un colosso che conosce più cose su di te di quanto tu ne sappia di te stesso. Ma non è solo Silicon Valley. È ovunque. È in Cina con i suoi sistemi di “social credit”, è in Francia con le sperimentazioni di videosorveglianza predittiva, è negli Stati Uniti, dove ogni EV è già pronto a diventare una telecamera ambulante. Per legge o per contratto.

Ed ecco il punto cieco di tutto questo: non abbiamo avuto una vera discussione pubblica su cosa significhi vivere in un mondo in cui ogni nostro movimento è tracciato da un’entità che non possiamo interrogare, che non possiamo votare, e che non risponde a nessuna giurisdizione locale. L’AI che analizza la tua presenza a una manifestazione non si chiederà mai “perché sei lì”. Vedrà solo che ci sei.

La funzione sociale del dissenso — quel diritto umano fondamentale — è così silenziata in modo non coercitivo, ma tecnocratico. Non ti impediscono di manifestare, ma ti disincentivano. Ti tracciano. Ti schedano. E questo basta.

Il tutto, ovviamente, in nome della sicurezza. Perché in una società dell’iperconnessione, il rischio è diventato il nuovo peccato capitale. E il “rischio sociale” è l’etichetta perfetta per delegittimare qualunque forma di protesta.

Ciò che serve non è meno tecnologia, ma più consapevolezza. Non meno intelligenza artificiale, ma più intelligenza collettiva. Serve una nuova alfabetizzazione etico-digitale, capace di fare le domande scomode che gli ingegneri non si fanno.

Perché la vera minaccia non è che un’auto a guida autonoma registri un crimine. La vera minaccia è che registri la normalità, e che poi qualcuno decida retroattivamente che quella normalità era devianza.

Nell’epoca in cui anche un frigorifero può testimoniare contro di te, il problema non è “se hai qualcosa da nascondere”. Il problema è chi decide cosa debba restare visibile. E a chi.


Ogni Tesla è un dispositivo di sorveglianza. Vale la pena saperlo, indipendentemente dal fatto che si partecipi o meno ad attività di protesta. Questa tabella mostra la posizione e la portata delle telecamere, presumendo che abbiano una visuale libera.

Il software di riconoscimento facciale, come Clearview AI, viene impiegato da centinaia di dipartimenti di polizia in tutto il Paese, incluso il dipartimento di polizia di El Cerrito nella contea di Contra Costa.

Secondo il sito ufficiale di Clearview AI, il software garantisce “identificazioni e arresti più rapidi” sfruttando fonti online come i social media pubblici. In passato, ha spiegato Couts, i sistemi di riconoscimento facciale si basavano su database governativi contenenti fototessere, patenti di guida o foto segnaletiche.

Oggi, software come Clearview AI adottano una tecnologia che analizza “tutto ciò che viene pubblicato online”, ha aggiunto.