Netflix ha appena fatto qualcosa che Hollywood finge ancora di non capire davvero. Ha usato l’intelligenza artificiale generativa per produrre un pezzo di cinema vero, non una demo da laboratorio. Ted Sarandos l’ha detto senza giri di parole, con quel tono da manager che sa di stare tracciando una linea nella sabbia. “Il primissimo footage finale creato con GenAI su schermo”. Il contesto? El Eternauta, serie argentina che a questo punto è più interessante per la sua pipeline produttiva che per la trama. La scena di un palazzo che crolla a Buenos Aires è stata completata dieci volte più velocemente e con un budget che, parole sue, “non sarebbe stato nemmeno pensabile con i normali effetti visivi”.
Non è il solito discorso da presentazione di start-up. Netflix non sta vendendo tool, li sta usando. Il messaggio implicito a Hollywood è tagliente: non serve più un budget da kolossal per avere effetti speciali da kolossal. La democratizzazione di VFX avanzati, compreso il famigerato de-aging che finora era appannaggio dei blockbuster Marvel, è un cambio di paradigma che spaventa più di quanto molti vogliano ammettere. Se fino a ieri la barriera di ingresso per certi standard visivi era insormontabile, oggi un team con un buon modello GenAI e una pipeline ottimizzata può competere con produzioni da centinaia di milioni.
C’è un passaggio interessante nelle parole di Sarandos. “Questo è lavoro vero fatto da persone vere con strumenti migliori”. È la frase che serve per placare sindacati e creativi sull’orlo di uno sciopero 2.0 contro l’automazione, ma è anche un messaggio strategico. Netflix sa benissimo che l’argomento etico è delicato, ma l’economia vince sempre. Se riesci a girare una scena complessa a un decimo del costo, nessun board di investitori si preoccuperà delle tue nostalgie artigianali.
Greg Peters, l’altro co-CEO, ha aggiunto il resto della visione. GenAI non solo per la produzione visiva ma per la personalizzazione, la ricerca e gli annunci interattivi che arriveranno nella seconda metà dell’anno. E qui si entra in un territorio ancora più pericoloso per i competitor, perché l’uso di intelligenza artificiale su contenuto e distribuzione nello stesso ecosistema è una leva che nessuno può permettersi di ignorare. Se riesci a ottimizzare contemporaneamente la creazione e l’esperienza di consumo, stai riscrivendo le regole.
Novantacinque miliardi di ore viste nella prima metà del 2025, un terzo in lingue non inglesi. Il dato è significativo perché è proprio sulle produzioni internazionali a budget medio che questa rivoluzione farà più danni. La vera disruption non è nell’ennesimo blockbuster di Hollywood, ma nel moltiplicarsi di prodotti globali che possono permettersi la stessa qualità visiva con costi compressi. A quel punto l’unico vantaggio competitivo rimasto sarà la distribuzione, guarda caso il terreno su cui Netflix è già imprendibile.
L’industria dell’intrattenimento si sta muovendo più velocemente di quanto la retorica anti-AI voglia far credere. Le major parlano ancora di “proteggere l’arte”, ma chi controlla i budget sta facendo i conti su Excel e la matematica è semplice. Se sei un regista e vuoi convincere qualcuno a darti soldi per la tua serie, tra due anni ti chiederanno quanta parte del tuo piano di produzione può essere gestita da GenAI. Chi risponderà “nessuna” verrà considerato un romantico o un irresponsabile.
Netflix, con questa mossa apparentemente tecnica, ha alzato l’asticella per tutti. Non è una questione di sostituire i creativi, ma di rendere economicamente insostenibile non usare queste tecnologie. E questo è il vero punto. Non è un’opportunità, è un obbligo competitivo. Come sempre accade, chi lo capisce per primo riscrive le regole mentre gli altri discutono ancora se sia giusto o sbagliato farlo.