L’ho sentito dire recentemente dal Prof. Luciano Floridi poche settimane fa in AI e Parlamento: “Sono 10 anni che la Cina investe in AI e noi ce ne siamo accorti con Deepseek”.
Quando una conferenza sull’intelligenza artificiale ospitata a Shanghai produce più dati e segnali strategici di una consultazione geopolitica delle Nazioni Unite, conviene prestare attenzione. Il World Artificial Intelligence Conference (WAIC) ha appena sancito un dato che sembra una semplice statistica ma in realtà è un grido di guerra algoritmica: la Cina è ormai casa di 1.509 modelli di intelligenza artificiale, pari a oltre il 40 per cento del totale mondiale. Siamo davanti a un’espansione non lineare, accelerata dalla logica del moltiplicatore digitale. Non si tratta solo di numeri, ma del segnale inequivocabile che Pechino non sta rincorrendo l’Occidente: lo sta sorpassando, a colpi di modelli open source, computing domestico e alleanze da supermarket digitale.
Con un totale mondiale di 3.755 modelli IA, la supremazia americana scricchiola sotto i riflettori riflettenti di un WAIC dove OpenAI e Meta non si sono nemmeno presentate. Non per disinteresse, ma perché sanno bene che oggi, in tema di modelli open source, la Cina non gioca più in trasferta. L’indicatore più chiaro? Il riconoscimento da parte di LMArena, piattaforma di benchmark dell’Università di Berkeley, che assegna proprio alla Cina i modelli open source con le performance più elevate al mondo. Una beffa silenziosa, soprattutto per un Paese dove “open source” era, fino a poco fa, sinonimo di vulnerabilità.
L’evento è stato un tour de force di dimostrazioni pubbliche e dichiarazioni tecnocratiche, dove ogni player cinese ha voluto mostrare i muscoli computazionali. Tencent ha presentato il suo Hunyuan 3D World Model 1.0, mentre SenseTime ha rilasciato la versione V6.5 del suo SenseNova, con miglioramenti nell’apprendimento per rinforzo che sembrano usciti da una simulazione quantistica. A detta di UBS, i modelli cinesi stanno già ottenendo successi concreti nella generazione video multimodale. E quando una banca svizzera inizia a parlare con entusiasmo della qualità narrativa degli algoritmi asiatici, forse è il caso di aggiornare le mappe cognitive della Silicon Valley.
Ma ciò che affascina (e inquieta) davvero non è solo la quantità di modelli, quanto l’ecosistema strutturato e scalabile che si sta costruendo intorno. L’approccio open source non è un vezzo etico, ma una leva strategica: dare accesso al codice sorgente significa trasformare migliaia di sviluppatori indipendenti in micro-eserciti di raffinatori di IA. Il risultato? Un meccanismo darwiniano di ottimizzazione distribuita che può generare innovazione più rapidamente di qualsiasi laboratorio chiuso in una torre d’avorio.
Alibaba, sempre più distante dalla sua immagine di e-commerce monolitico, ha portato in scena il suo nuovo modello multimodale per cockpit intelligenti, creato insieme a Qualcomm e Banma. L’auto intelligente cinese non è più un sogno da concept futuristico, ma un’interfaccia vocale che capisce il contesto, cambia clima interno e suggerisce playlist in base all’umore del conducente. Sì, tutto questo grazie al modello Qwen, che sembra uscito più da uno spin-off di Blade Runner che da Hangzhou.
Sul fronte hardware, la sfida a Nvidia è dichiarata, anche se non ancora vinta. Huawei ha mostrato la sua Supernode 384, un cluster con 300 petaflops di potenza e 48 terabyte di memoria a banda larga. Non è solo un data center: è un manifesto ingegneristico, una dimostrazione che l’alternativa ai chip americani non è più solo auspicabile, ma tangibile. Accanto a Huawei, start-up come Moore Threads e Enflame mostrano chip proprietari che iniziano a entrare in produzione industriale. Una risposta diretta a un mercato che, come sottolinea il CEO di Suanova, non ha ancora piena fiducia nelle soluzioni locali, ma che è pronto a cambiare idea.
Proprio Suanova, con la collaborazione di Fudan University, Luxshare e MetaX, sta lavorando al progetto Shanghai Cube, un’infrastruttura di calcolo ad alta densità che punta a creare un nuovo paradigma per l’IA made in China. La vera rivoluzione è però la “compute mall” lanciata da SenseTime: una piattaforma dove si acquistano risorse computazionali come frutta al mercato. Scegli, combini, implementi. Un’idea semplice, potentissima, e profondamente orientata a democratizzare l’accesso al deep learning.
Naturalmente, il dato critico resta quello delle infrastrutture: meno del 10 per cento della capacità di calcolo usata nei modelli IA cinesi è domestica. Ma è proprio su questo tallone d’Achille che si sta costruendo il prossimo vantaggio competitivo. Come ha dichiarato Chen Daliang, “ciò di cui la Cina ha più bisogno ora è unità – ed è ciò che sappiamo fare meglio”. Detto da un CEO in giacca e cravatta davanti a un robot che sbuccia uova non suona come una minaccia, ma come una dichiarazione di intenti.
Nel frattempo, mentre l’Occidente litiga su privacy, copyright e rischi esistenziali dell’IA generativa, la Cina costruisce robot chirurghi che sfidano la gravità e simulano match di boxe al WAIC come attrazione da Luna Park industriale. L’effetto è straniante, quasi distopico, ma perfettamente allineato con l’approccio techno-pragmatico che caratterizza il modello cinese: usare l’IA come forza moltiplicatrice economica, non come giocattolo filosofico.
La presenza del premier Li Qiang all’apertura dell’evento non è solo un simbolo politico. È il segnale che l’intelligenza artificiale in Cina è una questione di Stato, con implicazioni che vanno ben oltre la tecnologia. Non è un caso che si sia parlato della creazione di un centro internazionale per la cooperazione globale sull’IA. Dietro la cortina diplomatica, è l’offerta di Pechino a ridefinire le regole del gioco, dopo aver costruito (e riempito) quasi metà del campo.
Quindi, mentre l’Europa riflette su regolamenti, e gli Stati Uniti si interrogano su monetizzazione e leadership, la Cina spinge sull’acceleratore, trasforma ogni conferenza in un manifesto, e ridisegna il concetto stesso di “potenza digitale”. Sì, 1.509 modelli sono solo l’inizio. Quello che davvero conta è il modello cinese per farli nascere, crescere e moltiplicarsi. In fondo, come in ogni rivoluzione algoritmica, il codice non è il prodotto. È il linguaggio con cui si conquista il futuro.