L’episodio accaduto al Musée du Louvre il 19 ottobre 2025 sarebbe da manuale: ladruncoli vestiti da operai, scala meccanica, moto-scooter, vetrine spaccate, gioielli reali francesi per un valore stimato in 88 milioni di euro (oltre 102 milioni di dollari). Il fatto che ciò avvenga in pieno giorno, durante l’orario di apertura, all’interno della galleria più visitata al mondo, è già di per sé un richiamo al panico: se cade il Louvre, cade il castello delle certezze sulla sicurezza museale.

Ma ciò che davvero fa riflettere e che dovrebbe far suonare tutti gli allarmi nei dipartimenti IT, sicurezza, governance non è il furto in sé, ma le falle sistemiche che ne sono il terreno fertile. Le verifiche che emergono dalla copertura stampa rivelano una scia di allarmi ignorati, sistemi “legacy” trascurati, password ridicole e infrastrutture obsolete che lasciavano il castello aperto al ladro. La sicurezza museale, la risorsa critica che protegge patrimonio, cultura e reputazione, è stata trattata come optional.

Uno dei punti più surreali: fonti francesi indicano che uno dei sistemi di videosorveglianza del Louvre aveva come password… “louvre”. E non era un’eccentricità isolata: un audit dell’Agence nationale de la sécurité des systèmes d’information (ANSSI) nel 2014-2015 aveva già segnalato password banali come “THALES” (il nome del fornitore), infrastrutture superate (server Windows 2003, fuori supporto dal 2015), vulnerabilità critiche accessibili «facilmente». Ma la segnalazione è stata ignorata, molti sistemi legacy sono rimasti in piedi. Questo non è un incidente: è un campanello d’allarme per chiunque gestisca infrastrutture digitali complesse.

La rapina stessa è quasi comica nella sua semplicità: un camion porta-scala, due persone vestite con i gilet ad alta visibilità, attrezzi elettrici, accesso al secondo piano della galleria Apollo, vetrine rotte, otto oggetti rubati, uscita in meno di otto minuti. È la definizione dell’ingegneria del crimine nel mondo reale: logisticamente banale, tecnologicamente banale, ma resa possibile da una sequenza di trascuratezze ambientali.

Ed ecco il paradosso: il museo più famoso del mondo, custode del patrimonio francese, icona globale, si trova vulnerabile per difetti che dovrebbero essere mediati da un Chief Security Officer che possa dormire la notte dopo aver aggiornato password, patchato server, fatto penetration test e messo in sicurezza badge, telecamere, accesso fisico e logico. Invece, il risultato è questo: reputazione compromessa, gioielli spariti, interrogativi su tutto il sistema di difesa.

Non si può più parlare di “sicurezza museale” solo come barriera anti-furto: oggi è innanzitutto gestione vulnerabilità, governance della trasformazione digitale, razionalizzazione dei sistemi legacy. Se consenti server non supportati (ad esempio Windows Server 2003), password statiche e conosciute, interfacce badge manipolabili, devi aspettarti che qualcuno entri dal “tubo dell’acqua” digitale. I casi non sono più isolati: istituzioni culturali, musei, archivi, biblioteche, sono target di attacchi che combinano fisico e digitale, e la superficie di attacco cresce se la tua infrastruttura non è gestita come un impianto critico.

Il valore del danno non è solo economico: otto oggetti rubati ma la perdita è culturale, simbolica. Il ministro della Cultura francese ha parlato di “ferita” per la nazione. Dietro questo atto c’è la domanda: se il Louvre era così esposto, cosa succede nelle istituzioni minori? E quale sarà il prossimo “fai da te” per un team di criminali che sa che l’infrastruttura critica di un’istituzione è un trucco di cartone?

Per chi guida la trasformazione digitale e lei sa bene quanto sia cruciale nella sua esperienza questo caso è un campione d’insegnamento: la governance tecnologica non è opzionale, la manutenzione dei sistemi non è un’attività secondaria, la password “Louvre” è un simbolo di arroganza operativa. Non basta avere telecamere che “funzionano”: se il contesto operativo, le procedure, i backup, il monitoraggio, l’analisi delle vulnerabilità non sono costruiti come un sistema vivente, anche le telecamere migliori servono a poco.

Un CEO tecnologico serio prende nota: la “risorsa legacy” non è solo un problema di costo, è un problema d’esposizione al rischio. Un’interfaccia badge scadente, un server obsoleto, un vendor che ti dice “facciamo tutto” e tu rispondi “va bene”, sono spie rosse che a un certo punto si ripercuotono come ondate d’urto. La rapina al Louvre diventa quindi metafora: se quel livello può essere penetrato in meno di otto minuti, allora tutti i livelli rischiano.

Curiosità per mantenere l’attenzione: uno degli oggetti rubati era parte dei gioielli della Marie‑Louise, seconda moglie di Napoleone I; un altro era legato a Eugenie de Montijo, imperatrice di Francia. Le gioie rubate non erano solo scintillanti pietre: erano pezzi di storia nazionale, e da oggi diventano storie di vulnerabilità nazionale.

L’assunto provocatorio che io lancio qui è questo: se un’istituzione con l’iconicità del Louvre può avere un sistema di videosorveglianza protetto dalla password “louvre”, allora nessuno è al sicuro dalle falle sistemiche. Non basta “abbiamo una password”, serve “abbiamo un processo di cambiamento continuo, patching, audit, krieg digitali, risk management”. La sicurezza museale si trasforma in sicurezza digitale integrata, e la gestione delle risorse legacy diventa primo tema strategico. Il messaggio è chiaro: o cambi o rischi che qualcuno entri, prenda, esca e ti cambi la percezione (e il patrimonio).

Per tirare una riflessione finale: la reputazione di un’istituzione, l’integrità di un patrimonio, la fiducia di un pubblico globale sono fragili come una vetrina spaccata. E spesso, la vulnerabilità non è esterna ma interna è nel “password = nome dell’istituzione”, è nel “server che non aggiorno perché costa”, è nel “facciamo finta che funzioni”. Di fronte a ciò la trasformazione digitale non è solo opportunità di innovazione, è terapia d’urgenza.