Meta che si mette a usare i dati pubblici degli utenti europei per addestrare la sua IA? Benvenuti nell’era dove persino la privacy diventa un concetto liquido, un po’ come l’acqua che cerchi di afferrare con le mani. Sì, perché la notizia, almeno a prima vista, suona innocua: “Solo dati pubblici, niente messaggi privati.” Ma chi ha detto che i dati pubblici siano davvero pubblici nel senso che vogliamo noi? In un mondo dominato dalla digitalizzazione totale, il confine tra pubblico e privato è più labile di quanto si creda, e Meta lo sa bene.

Parliamo chiaro: Meta, la stessa che ci ha fatto passare dalle chat di Facebook agli universi paralleli di Instagram e WhatsApp, ora vuole addestrare le sue IA con i dati raccolti da fonti pubbliche degli utenti europei. Il punto non è tanto l’uso dei dati, ma l’interpretazione di cosa significa “pubblico” in un contesto regolamentato dal GDPR, una delle normative più severe al mondo. Non a caso, il GDPR ha tentato di mettere un freno alla raccolta indiscriminata di dati, ma quando Meta parla di dati pubblici, si rifà a tutto ciò che è accessibile senza autenticazione: profili, commenti, post visibili a tutti.

È qui che il concetto di tutela diventa affilato come una lama. Perché se anche non stanno leggendo i tuoi messaggi privati, stanno comunque pescando in un oceano di dati che, dal tuo profilo, hai forse solo un po’ superficialmente lasciato alla mercé del web. E sì, puoi decidere di regolare queste impostazioni, ma quanti lo fanno davvero?

Anna Ascani, nel suo video, suggerisce un modo per tutelarsi da questo potenziale sfruttamento digitale. Non è un segreto da svelare in tre mosse, ma un vero e proprio cambio di mentalità, un’opera di disintossicazione digitale che richiede di prendere in mano le chiavi del proprio profilo e capire esattamente cosa stai lasciando in pasto agli algoritmi. E no, non basta nascondere qualche post o mettere il profilo privato, perché spesso il “pubblico” non è solo ciò che si vede nel feed, ma anche tutto quello che resta nascosto nelle pieghe delle piattaforme, nelle interazioni, nei like, nei commenti.

In tutto questo, Meta gioca a fare la buona samaritana digitale, assicurando che nessun dato sensibile o conversazione privata venga toccata. Ma allora qual è il punto? Il punto è che, in un mondo dove l’intelligenza artificiale si nutre di dati per diventare sempre più smart, ogni dato pubblico è come una pagliuzza che va a comporre il grande pagliaio delle informazioni. E più pagliuzze ci sono, più l’IA diventa capace di costruire profili, anticipare comportamenti, prevedere tendenze.

Certo, potremmo anche dire che la trasparenza dovrebbe essere massima, e in teoria lo è, almeno secondo le policy di Meta. Ma è davvero così semplice? Chi ha tempo e voglia di navigare tra mille opzioni di privacy, di capire cosa succede dietro le quinte di un algoritmo? Ed è qui che si fa strada la vera ironia della questione: nel tentativo di proteggersi, l’utente medio si trova a dover diventare un esperto di tecnologie e regolamenti, mentre la multinazionale continua a sfruttare le falle del sistema.

Il risultato? Un cortocircuito digitale dove la tutela della privacy diventa un esercizio di equilibrio tra fiducia e sospetto, tra consapevolezza e rassegnazione. Meta usa i dati pubblici, sì, ma sta anche usando la nostra capacità di non leggere tra le righe, di non aggiornarsi abbastanza velocemente, di lasciare il controllo nelle mani di chi ha gli strumenti migliori per manovrare il gioco.

Se vogliamo veramente proteggerci, dobbiamo partire da qui: non c’è una scorciatoia, non basta qualche trucco. Bisogna ripensare il modo in cui concepiamo la nostra presenza digitale, capire che ogni “pubblico” è un terreno di caccia per chi fa IA, e decidere consapevolmente cosa lasciare esposto e cosa no.

Dunque, ti lascio con questa riflessione provocatoria: se il dato pubblico è la nuova materia prima per l’intelligenza artificiale, quanto siamo davvero padroni delle nostre informazioni? E soprattutto, fino a che punto vale la pena fare lo sforzo di tutelarsi, quando il gioco è così complesso e le regole cambiano a ogni aggiornamento di algoritmo? Anna Ascani ci mette in mano qualche chiave, ma la porta la dobbiamo aprire da soli. Chi è pronto a farlo?