Abu Dhabi incontra Versailles, e no, non è l’inizio di una barzelletta. È lo scenario barocco politicamente perfetto in cui G42, il conglomerato tech degli Emirati già benedetto dai fondi e dai sorrisi di Microsoft, ha ufficializzato la sua liaison con Mistral AI, la startup francese che si spaccia per paladina dell’open source europeo nel mondo dell’intelligenza artificiale. Una partnership annunciata durante il summit Choose France, dentro al Palazzo di Versailles, tra specchi dorati e retorica sulla “sovranità digitale”. Eppure dietro gli abbracci diplomatici si nasconde una manovra geopolitica raffinata e molto concreta: costruire una piattaforma AI sovranazionale, interoperabile e scalabile, che abbia basi non solo tecniche ma anche ideologiche. O così almeno vogliono farcela bere.
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Nuove prospettive su come la tecnologia ai sta plasmando il futuro del business e della finanza

Nel panorama affollato dell’intelligenza artificiale, dove startup si moltiplicano come funghi dopo un temporale, poche realtà riescono a mantenere la rotta con la fermezza e l’audacia di Anthropic. Questa società a scopo benefico, specializzata nello sviluppo di AI responsabile, ha appena chiuso un finanziamento da 2,5 miliardi di dollari sotto forma di una linea di credito revolving quinquennale. Ma non si tratta di un semplice prestito; è una dichiarazione di forza e di ambizione che sa di sfida diretta ai giganti del settore.
Nel mondo delle startup tecnologiche, avere il sostegno di istituzioni finanziarie di altissimo livello come Morgan Stanley, Barclays, Citibank, Goldman Sachs, JPMorgan, Royal Bank of Canada e Mitsubishi UFJ Financial Group è un passaporto privilegiato. La capacità di ottenere questa fiducia indica non solo solidità finanziaria, ma anche una strategia di crescita esponenziale che può fare la differenza tra un sogno e una realtà concreta. Krishna Rao, CFO di Anthropic, si pavoneggia giustamente su LinkedIn, parlando di “flessibilità” e “impegno nello sviluppo responsabile di AI”. Tradotto dal politichese, significa: abbiamo i soldi per spingere a fondo sull’acceleratore, ma non siamo qui a inventarci scorciatoie etiche. O almeno, questo vogliono farci credere.

Siamo nel 2025 e ancora ci stupiamo che un chatbot inventi citazioni? È quasi tenero. Ma questa volta la gaffe ha il sapore dell’imbarazzo legale, perché non si tratta dell’ennesimo studente pigro che copia e incolla da un assistente AI generativo: qui parliamo di un’aula di tribunale, una causa per violazione di copyright da parte di Concord Music Group contro Anthropic, una delle startup più chiacchierate della Silicon Valley, che ha fatto del modello Claude la sua punta di diamante nell’arena dell’intelligenza artificiale generativa.
E invece. Una testimone dell’azienda, nel corso della deposizione, cita un articolo che dovrebbe supportare la tesi difensiva di Anthropic. Solo che – piccolo dettaglio – quell’articolo non è mai esistito nei termini indicati. Titolo sbagliato. Autori sbagliati. Una citazione costruita come un castello di sabbia su una spiaggia di bias algoritmici. Il risultato? Una figuraccia da manuale, e una dichiarazione ufficiale dell’avvocato di Anthropic in cui si cerca di minimizzare l’errore, incolpando – ovviamente – l’AI. Cattiva Claude.
Abu Dhabi, maggio 2025. Donald Trump, in una delle sue più teatrali apparizioni internazionali, ha inaugurato insieme al presidente degli Emirati Arabi Uniti, Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan, il più grande campus di intelligenza artificiale fuori dagli Stati Uniti: un colosso da 5 gigawatt di potenza computazionale, destinato a diventare il cuore pulsante dell’AI globale.
Dietro le foto ufficiali e le strette di mano, si cela una strategia precisa: posizionare gli Emirati come snodo centrale tra Occidente e Sud Globale, offrendo potenza di calcolo a bassa latenza a quasi metà della popolazione mondiale. Il campus, costruito da G42 e gestito in collaborazione con aziende americane, sarà alimentato da fonti nucleari, solari e a gas, con l’obiettivo di minimizzare le emissioni di carbonio.

Sembrava l’astro nascente dell’AI cinese, il modello di ragionamento che avrebbe ridefinito l’ottimizzazione dei parametri, l’efficienza computazionale e magari anche l’orgoglio nazionale sotto embargo tecnologico. E invece DeepSeek-R1, la star di Hangzhou, ha iniziato a perdere colpi. La quota di utilizzo sulla piattaforma Poe è precipitata dal 7% di febbraio al misero 3% ad aprile. Un crollo verticale degno di una startup fintech senza licenza bancaria, e non del presunto miracolo algoritmico made in China.
Per chi non fosse familiare con Poe, si tratta della piattaforma AI di Quora, dove gli utenti possono scambiare messaggi con diversi modelli linguistici. Una vetrina piuttosto trasparente sulle dinamiche di adozione reale, molto più sincera dei comunicati stampa pieni di grafici colorati e acronimi fuffosi. E i numeri parlano chiaro: oggi DeepSeek è solo il terzo modello di ragionamento più usato, dopo Gemini 2.5 Pro di Google e Claude 3.7 Sonnet di Anthropic. Il primo prende il 31,5% delle query, il secondo il 19,1%. DeepSeek-R1? Si ferma al 12,2%. Gli altri modelli della casa, tipo il tanto decantato V3, nemmeno pervenuti nella top five. Spariti come un white paper durante un audit.

Non è più solo una gara a chi genera il testo più fluente, il codice più elegante o il riassunto più smart. No, il mercato dell’intelligenza artificiale generativa sta entrando nella fase in cui il chiacchierone digitale deve anche vendere, incassare, spedire e possibilmente non sbagliare un indirizzo. In altre parole, l’AI ora ti vuole anche comprare la roba. Da sola.
E Perplexity, che fino a ieri era l’alternativa nerd a ChatGPT, ha appena rilanciato pesantemente: partnership con PayPal, checkout dentro la chat, e-commerce integrato come fosse una roba naturale. Altro che “motore di risposta”, qui siamo alla nascita dell’agente conversazionale commerciale, o, come la chiamano loro, agentic commerce. Il chatbot non è più un assistente. È il tuo personal shopper con poteri di pagamento.

Se ancora qualcuno si sta chiedendo quale ruolo giochi l’intelligenza artificiale nell’agenda di Donald Trump, basta guardare la sua squadra per avere un’idea chiarissima di come la tecnologia e le grandi aziende si stiano facendo strada nel cuore della politica. La delegazione che ha incontrato il Principe Ereditario saudita Mohammed bin Salman ci dà una cartina tornasole perfetta. Tra i nomi che saltano subito agli occhi, spiccano quelli legati a colossi della tecnologia e della finanza, quelli che in un mondo ideale dovrebbero stare ben lontani dai palazzi del potere. Ma come ben sappiamo, l’idealismo è un lusso che pochi si possono permettere.

Mentre Donald Trump sbarca nel Golfo con il suo entourage di miliardari, OpenAI valuta l’espansione in Medio Oriente con un nuovo centro dati negli Emirati Arabi Uniti. Un’operazione che, più che una semplice mossa infrastrutturale, sembra un’abile partita a scacchi tra tecnologia, geopolitica e interessi economici.
La decisione di OpenAI di considerare un centro dati negli Emirati non è casuale. Con Sam Altman presente nella regione, l’azienda mira a consolidare la sua presenza in un’area strategica, sfruttando le opportunità offerte dalla recente apertura degli Stati Uniti all’esportazione di chip avanzati NVIDIA verso il Golfo. Un cambiamento di rotta rispetto alle restrizioni imposte durante l’amministrazione Biden.

Senza nemmeno suonare il gong, Google entra nella gabbia dell’intelligenza artificiale con l’ennesima trovata, mascherata da filantropia tecnologica: l’AI Futures Fund. Un nome da romanzo cyberpunk di serie B, ma con dentro il solito schema di colonizzazione strategica: capitali, risorse, controllo. Questa volta però non si parla di acquisizioni muscolari alla “dammi la tua startup e ti compro pure il cane”, ma di una seduzione più sottile. Il fondo non ha scadenze, non segue coorti, non chiede pitch al minuto. È sempre aperto, sempre pronto. Tipo l’occhio di Sauron, ma con badge di Google Cloud.

Immagina di essere incollato alla TV, completamente immerso in una serie che ti sta tenendo col fiato sospeso. L’inseguimento in auto è al culmine, e proprio mentre l’auto dei protagonisti sterza per evitare un precipizio, l’inquadratura si ferma per fare spazio a una pubblicità. Ma non una pubblicità qualsiasi: no, questa è un’opera d’arte dell’intelligenza artificiale. La macchina riconosce il contesto e, come per magia, ti propone un’auto sportiva che scivola sulle curve con la stessa grazia del tuo protagonista preferito. Amazon, ovviamente, è all’avanguardia in questa follia.

C’era una volta Google. Poi è arrivato Alphabet, un castello di sabbia costruito per tenere insieme motori di ricerca, sogni quantistici e pubblicità da miliardi. Adesso? Si comincia a scricchiolare sotto il peso della stessa creatura che avrebbe dovuto garantire l’immortalità: l’intelligenza artificiale. E quando perfino Wedbush – uno di quei nomi che sussurrano consigli agli orecchi di hedge fund e istituzionali – decide di toglierti dalla sua Best Ideas List, è il segnale che il mercato sente puzza di bruciato, anche se la grigliata è ancora accesa.

Benvenuti nel nuovo circo dell’intelligenza artificiale, dove i numeri sono sempre a dodici zeri, le promesse galleggiano sopra le nuvole, e i capitali reali… quelli si fanno attendere. SoftBank, che già da anni gioca a Risiko con le startup globali, aveva annunciato con enfasi quasi hollywoodiana un investimento da 100 miliardi di dollari per costruire infrastrutture AI negli Stati Uniti. Un piano epocale. Poi è arrivato il “solito imprevisto”: Donald Trump, e le sue tariffe stile Medioevo 4.0.

L’accordo siglato lunedì tra Stati Uniti e Cina per sospendere la maggior parte dei dazi doganali reciproci per un periodo di 90 giorni ha suscitato una serie di reazioni, tra cui un sensibile rialzo dei mercati azionari. Il motivo di questo entusiasmo è chiaro: la speranza che l’allentamento delle tensioni commerciali tra le due potenze mondiali possa finalmente disinnescare una guerra commerciale che sembra non finire mai. Ma come spesso accade nelle trattative internazionali, dietro le promesse di una tregua ci sono sempre i soliti interrogativi. Vale la pena credere che questo accordo sia solo il primo passo verso una distensione reale, o si tratta di una mossa strategica per guadagnare tempo mentre entrambe le nazioni continuano a tessere le loro strategie sullo scacchiere globale?

Se la Silicon Valley fosse una religione, oggi il suo dio si chiamerebbe Jensen Huang, il suo vangelo sarebbe il chip H100 di Nvidia, e il suo profeta sarebbe Daniel Ives di Wedbush. Secondo la sua ultima rivelazione agli investitori, 30 nomi tech guideranno la nuova crociata digitale: quella dell’AI Revolution, un’ondata tecnologica che promette di riscrivere le regole della produttività, dell’economia e del potere geopolitico. In altre parole, benvenuti nella Quarta Rivoluzione Industriale: stavolta non servono motori a vapore, bastano GPU e Large Language Models.

Houston, abbiamo un problema. E non è un bug. È un’intera industria che si è convinta di poter decollare con la sola spinta della narrazione. Oggi l’intelligenza artificiale generativa non è in panne, ma in orbita instabile. Come l’astronauta Major Tom in Space Oddity di David Bowie: fluttua, elegante e seducente, ma scollegata dalla base operativa, cioè dalla realtà.
In queste settimane, tre headline hanno fatto da sveglia alla Silicon Valley, e a chi ancora sognava un’AI che scrive codice da sola, genera arte, risolve ogni inefficienza e nel tempo libero salva anche il mondo. Il problema è che mentre il sogno cresceva, i conti andavano in direzione opposta. E il valore percepito, come spesso accade nei deliri da bull market, ha fatto il salto quantico: da potenziale a miraggio.

Questa estate a Mountain View non serviranno solo condizionatori. Serviranno avvocati, lobbisti e un discreto quantitativo di ansiolitici. Nella sede centrale di Google, l’aria si sta facendo densa di preoccupazioni, non solo per l’aria condizionata mal tarata, ma per il rischio concreto di un ridimensionamento epocale del suo core business: la ricerca.
Dopo un processo durato tre settimane, che si è chiuso a Washington con toni da processo storico (perché in effetti lo è), Google è in attesa della decisione di un giudice federale che potrebbe stravolgere le fondamenta economiche su cui l’azienda ha costruito il suo impero. Non è più questione di se, ma di quanto e come il giudice vorrà tagliare le unghie al colosso della Silicon Valley. E non parliamo di dettagli tecnici, ma del cuore pulsante di Alphabet: il motore di ricerca.

Non è un keynote, è una dichiarazione di guerra. Stripe, il gigante silenzioso del fintech da mille miliardi di dollari in transato annuale, ha aperto il sipario al suo evento Stripe Sessions con una raffica di annunci che sembrano usciti da una roadmap del 2030. Ma no, è tutto qui, oggi, e ha il sapore di una piattaforma che non solo vuole processare pagamenti, ma diventare l’infrastruttura dominante per ogni bit che si muove nel mondo del denaro digitale.
Il cuore della rivelazione è il nuovo foundation model AI per i pagamenti. Non un LLM da salotto, ma un colosso addestrato su decine di miliardi di transazioni reali. Emily Glassberg Sands, responsabile dati di Stripe, non si è trattenuta nel vantarsene: il modello “cattura centinaia di segnali sottili che altri non vedono”. Tradotto: Stripe adesso vede prima degli altri dove sta il rischio, chi bluffa e chi fa sul serio.
Jony Ive, l’ex designer di Apple ormai celebre per aver progettato l’iPhone, l’iPad, e l’Apple Watch, è sempre stato un maestro nel trasformare idee eleganti in prodotti iconici. Tuttavia, in una recente intervista con Stripe, ha rivelato un lato più introspettivo, ammettendo gli effetti collaterali negativi che possono emergere dalle stesse innovazioni che ha contribuito a creare. Il suo prossimo progetto, una collaborazione con OpenAI, sembra essere guidato dal desiderio di affrontare le conseguenze non intenzionali che la tecnologia ha avuto sulla società, in particolare riguardo l’iPhone. Per Ive, questa riflessione non è solo un pensiero passeggero, ma una forza trainante dietro il lavoro che sta sviluppando nel silenzio.

In un mondo aziendale che si aggrappa disperatamente a qualsiasi buzzword possa suonare futuristica durante un consiglio di amministrazione, l’intelligenza artificiale generativa si è trasformata in una nuova forma di spettacolo aziendale. Una messinscena lucidata a dovere da power point, executive summary e sessioni di design thinking che odorano di caffè bruciato e PowerBI.
La media? Cinque milioni di dollari a progetto. L’impatto? Una probabilità su dieci di ottenere un risultato che valga qualcosa.

Nippon Telegraph and Telephone (NTT), il colosso delle telecomunicazioni giapponese, ha annunciato l’intenzione di acquisire la totalità delle azioni di NTT Data, la sua controllata nel settore dei servizi IT. Attualmente, NTT detiene circa il 57,7% di NTT Data e prevede di lanciare un’offerta pubblica d’acquisto (OPA) per rilevare le restanti azioni, con un premio del 30% al 40% rispetto al prezzo di mercato, per un valore complessivo di circa 3 trilioni di yen (20,9 miliardi di dollari).

Netflix si rifà il trucco, ma stavolta con bisturi di silicio e un’anima di machine learning. Niente facelift estetico fine a sé stesso: questa volta il colosso dello streaming ha svelato una rivoluzione strutturale del suo prodotto, puntando tutto su intelligenza artificiale generativa e feed verticali in pieno stile TikTok. L’obiettivo? Farci scoprire contenuti più in fretta, o almeno darci l’illusione di avere il controllo mentre ci perdiamo nei soliti 20 minuti di scroll compulsivo prima di arrenderci a rivedere Breaking Bad per la settima volta.

Sette percento. In una giornata. Per un’azienda come Google, pardon Alphabet, non è un piccolo raffreddore da mercato: è una febbre improvvisa, di quelle che ti costringono a fermarti e domandarti se è solo influenza o l’inizio di qualcosa di più serio. Il tonfo è avvenuto dopo la testimonianza di Eddy Cue, alto dirigente Apple, in un’aula di tribunale a Washington. Cue, con la solennità tipica di chi sa che sta dicendo qualcosa di potenzialmente storico, ha ammesso che per la prima volta in assoluto il volume di ricerca su Safari – dove Google è ancora il motore di default è diminuito. Non rallentato. Non stagnato. Diminuito.
Questa frase, lanciata in aula quasi come una bomba ad orologeria, ha avuto un eco immediato a Wall Street. Il mercato non ama le sorprese, e meno ancora ama i segnali di declino sistemico. Ma il punto è: davvero è una sorpresa?

OpenAI ha deciso di ridurre significativamente la quota di ricavi destinata a Microsoft, passando dal 20% al 10% entro il 2030. Questa mossa fa parte di una più ampia ristrutturazione che mantiene il controllo nelle mani del consiglio non profit di OpenAI, limitando così l’autorità del CEO Sam Altman.
La decisione di mantenere la struttura non profit, abbandonando i piani per diventare un’entità for-profit, è stata presa dopo consultazioni con leader civici e procuratori generali di California e Delaware. Questo cambiamento complica il rapporto con Microsoft, che ha investito 13 miliardi di dollari in OpenAI dal 2019.

Non serve un esperto di geopolitica monetaria per capire che quando il dollaro va giù, qualcosa scricchiola nel tempio dorato delle Big Tech. Non si tratta solo di una dinamica macroeconomica da manuale da primo anno di economia, ma di un’onda lunga che rischia di travolgere margini, guidance e peggio ancora la propensione al rischio di chi finanzia l’innovazione.

Non c’è metafora migliore di un unicorno con un teschio sorridente per raccontare lo stato d’animo dell’attuale venture capital alle prese con l’intelligenza artificiale. Ironico, surreale, quasi beffardo. Perché oggi i VC (venture capitalist, non Viet Cong), dopo aver gettato benzina sul fuoco dell’hype AI, si ritrovano a contemplare le fiamme che potrebbero consumare proprio il loro stesso modello di business. Non per una questione etica, né per scrupolo umano. Solo per pura sopravvivenza.

Se c’è una cosa che Elon Musk sa fare oltre a creare polemiche e a perdere tempo su X fingendo di essere un meme umano è annusare dove tira il vento. E in questo momento, il vento soffia dritto da Pechino, profuma di yuan, ma anche di controllo governativo stile Panopticon 3.0. La notizia che Tesla abbia deciso di affidarsi solo a sistemi di visione tramite telecamere per il suo sviluppo dell’autonomia in Cina, lasciando fuori i sensori lidar, è molto più di una semplice scelta tecnica: è una mossa politica, strategica, ideologica. E non è un’esagerazione chiedersi se Elon abbia simbolicamente preso la tessera del Partito Comunista Cinese, magari insieme a un aggiornamento software.

Il mondo si sta frantumando in blocchi economici, le guerre commerciali sono il nuovo status quo e i dazi una costante minaccia all’efficienza globale. Ma nel cuore di questa tempesta geopolitica, le grandi aziende tech americane stanno facendo una cosa sorprendente: continuano a spendere come se nulla fosse. Anzi, accelerano. Nonostante i venti contrari alimentati da Trump e le tensioni con la Cina, Amazon, Meta, Microsoft e soci sembrano vivere in una bolla isolata, alimentata a colpi di GPU, data center e intelligenza artificiale.
Meta ha spiazzato tutti mercoledì scorso, alzando la previsione di spesa per il 2025 dell’8%, portandola fino a 72 miliardi di dollari. Non sono briciole, ma investimenti pesanti in infrastrutture che servono a sostenere le sue ambizioni nel campo dell’AI. E no, non è la solita narrativa da earnings call. I soldi li stanno davvero spendendo. Il cuore di questo aumento? Data center, ovviamente. Perché senza data center non c’è AI, e senza AI, oggi, sei irrilevante.

Satya Nadella (telugu సత్యనారాయణ నాదెళ్ల, urdu نادیلا ستیہ ناراینہ) può pure sorridere, con quel mezzo ghigno da guru zen della Silicon Valley. Dopo anni in cui Apple si prendeva tutte le copertine e le standing ovation, ora è Mr. Azure a prendersi l’applauso. Microsoft ha chiuso la settimana con una capitalizzazione monstre di 3.235 trilioni di dollari, superando Apple, ferma a 3.07 trilioni. L’ironia? Nessun miracolo, nessuna rivoluzione. Solo execution chirurgica e crescita costante. Esattamente quello che gli investitori cercano in tempi di isteria monetaria e geopolitica da Far West.

C’era una volta il rally tecnologico. Mercoledì, Meta e Microsoft avevano fatto brillare gli occhi a Wall Street come un bambino davanti alla vetrina di una pasticceria. Giovedì, invece, Apple e Amazon hanno spento la festa come uno zio ubriaco a un matrimonio: le trimestrali sono arrivate puntuali, ma l’effetto è stato un atterraggio morbido, quasi anestetico. La crescita? Un timido +5% per Apple e un più frizzante +9% per Amazon. Numeri dignitosi, ma assolutamente “normali”. Parola maledetta per chi vive e muore di storytelling iper-crescita.
Però qui la contabilità è solo la superficie. La vera frustrazione degli investitori si nasconde dietro una sigla antica e velenosa: dazi. Trump, che non ha ancora smesso di flirtare con le leve protezionistiche come fossero il telecomando del caos globale, ha rimesso sul tavolo le tariffe sull’import dalla Cina. E l’intero comparto tech americano è improvvisamente diventato un castello di vetro.

Civitai, piattaforma una volta celebrata come la terra promessa dell’AI-generata senza filtri, ha improvvisamente sterzato verso il puritanesimo digitale con l’introduzione di linee guida che suonano come l’ennesimo necrologio alla libertà creativa in rete. In nome della “compliance”, la comunità si è risvegliata in un incubo fatto di policy vaghe, monetizzazione amputata e contenuti spariti nel nulla.
La svolta è arrivata come una mazzata la settimana scorsa: regole ferree che vietano tutto ciò che odora di devianza digitale. Incesto? Vietato. Diaper fetish? Sparito. Autolesionismo, bodily fluids e ogni altra manifestazione “estrema”? Bannata. L’apocalisse per chi da anni usava la piattaforma per esplorare le proprie fantasie visive più bizzarre o semplicemente per generare arte fuori dagli schemi. Ma attenzione, non stiamo parlando di una porno-piattaforma: Civitai non è mai stato OnlyFans for LoRAs. Il suo pubblico includeva furries, fan di anime adult e comunità BDSM digitali, ma anche artisti, tecnici e ricercatori.

Gli investitori di Xai svelano le chiavi del successo: il reinforcement learning è davvero obsoleto?
La Silicon Valley è in piena transizione. Le buzzword si rincorrono, gli investimenti pivotano da un trend all’altro con l’agilità di un algoritmo impazzito, e oggi al centro della scena c’è Xai, startup blockchain e IA, uscita dal cilindro della scuderia Elon Musk-style, supportata da colossi come a16z e Multicoin Capital. Mentre la stampa generalista recita il rosario delle solite promesse – decentralizzazione, intelligenza artificiale, democratizzazione dell’accesso – dietro le quinte, gli investitori iniziano a porsi una domanda che pochi osano formulare ad alta voce: il reinforcement learning è già superato?
Il caso Xai è emblematico. L’azienda, che si definisce una “AI-native blockchain”, sta tentando di colonizzare un territorio che fino a ieri era dominato da soluzioni che impilavano modelli pre-addestrati e RLHF (Reinforcement Learning from Human Feedback). La promessa? Una rete progettata per agenti IA autonomi che interagiscono on-chain, senza umani a regolare il flusso. In teoria, un paradiso per chi sogna DAO alimentate da intelligenze artificiali, contratti intelligenti che si modificano da soli, ed economie algoritmiche dove l’umano è spettatore più che protagonista.

Mentre l’Occidente dorme sugli allori di ChatGPT, Alibaba si sveglia di soprassalto e lancia la terza generazione del suo modello di intelligenza artificiale open source: Qwen3. Non si tratta di un semplice aggiornamento, ma di una vera e propria dichiarazione di guerra simbolica e tecnologica, fatta di miliardi di parametri, codice open source e una narrativa cinese sempre meno sottomessa al monopolio americano. L’annuncio, avvenuto a Hangzhou per bocca di Alibaba Cloud, sancisce non solo un balzo evolutivo nella corsa globale all’AI, ma anche l’ascesa incontestabile del modello cinese all’interno della comunità open source mondiale.
Otto modelli, da 600 milioni a 235 miliardi di parametri, distribuiti con la stessa disinvoltura con cui si carica un’app su GitHub o Hugging Face, dimostrano che l’era in cui solo gli Stati Uniti detenevano la leadership del pensiero computazionale sta volgendo al termine. Il Qwen3-235B, la punta di diamante della famiglia, ha superato i mini modelli di OpenAI come o3-mini e o1, e anche l’R1 di DeepSeek, in ambiti dove solitamente si celebrava solo l’inglese algoritmico: comprensione linguistica, conoscenza specialistica, matematica e programmazione. E lo ha fatto da open source. Ironico.

1 Maggio, festa dei lavoratori, il BAR è giustamente chiuso!
Nel teatro sempre più disordinato dell’economia americana, dove la politica commerciale di Donald Trump gioca al flipper tra dazi, minacce e improvvisi rovesciamenti, la narrazione dominante racconta di imprese che tremano all’orizzonte di una recessione. La volatilità, l’incertezza, e la paranoia sono moneta corrente nei salotti dei macroeconomisti e nei report delle banche centrali. Eppure, due colossi della tecnologia americana hanno appena gettato un secchio d’acqua gelata su queste ansie da crollo: Microsoft e Meta, in barba al mood catastrofista, hanno pubblicato risultati trimestrali sorprendentemente robusti. E non stiamo parlando di briciole.

Susan Li, la Chief Financial Officer di Meta, ha fotografato un mese di aprile più roseo del previsto. A parte un evidente freno della spesa da parte delle piattaforme asiatiche di e-commerce che invadono il mercato americano (Temu e Shein, i due dragoni digitali low-cost), tutto il resto del panorama appare, nella sua parole, “sano”. Nessun collasso imminente, nessuna fuga dai consumi, niente che somigli nemmeno vagamente a un preludio recessivo. L’economia reale, almeno quella che scorre nei cavi in fibra e nei data center, sembra immune alle tensioni geopolitiche e tariffarie.

L’America è il paese dove la verità è facoltativa, soprattutto se minaccia gli interessi economici o l’ego politico di un ex presidente in campagna permanente. Martedì scorso, una notizia firmata Punchbowl News ha fatto tremare l’asse Amazon-Trump: il colosso dell’e-commerce avrebbe voluto mostrare ai consumatori quanto del prezzo finale di un prodotto deriva dalle tariffe imposte dagli Stati Uniti sulla Cina. Un’iniziativa di trasparenza che, in teoria, dovrebbe essere applaudita. In pratica? È stata subito bollata come “atto ostile e politico” dalla portavoce dell’ex presidente Donald Trump. La reazione isterica non sorprende: dire ai cittadini quanto realmente pagano in più per effetto di decisioni politiche non è mai stato uno sport popolare in tempo di elezioni.
L’idea attribuita ad Amazon — poi smentita con affanno dal portavoce Tim Doyle era di indicare sui prodotti venduti attraverso Amazon Haul (la sezione discount lanciata nel 2023 per rincorrere Temu e Shein) l’incidenza delle tariffe, in particolare il nuovo balzello del 145% su molti beni d’importazione dalla Cina.

Nel panorama sempre più complesso dell’intelligenza artificiale (IA), gli Inference Provider svolgono un ruolo fondamentale, fornendo l’infrastruttura necessaria per eseguire modelli di machine learning (ML) e deep learning (DL) in tempo reale, per le applicazioni che richiedono inferenze veloci e precise. Questi provider offrono un ambiente scalabile, sicuro e ottimizzato per il calcolo e la gestione dei modelli IA, permettendo alle aziende di integrare facilmente la potenza dei modelli addestrati senza doversi preoccupare della gestione delle risorse hardware o software sottostanti.
In pratica, un Inference Provider è un servizio che permette di inviare i dati a un modello pre-addestrato per generare previsioni o inferenze. Si distingue dall’addestramento vero e proprio dei modelli, che richiede una quantità significativa di risorse computazionali, ma è altrettanto critico per applicazioni che necessitano di decisioni rapide basate su dati nuovi, come nel caso di veicoli autonomi, assistenti virtuali, sistemi di raccomandazione, e molto altro.

Mentre la Silicon Valley si esercita nel dribbling geopolitico, Nvidia si ritrova nel bel mezzo di un palcoscenico dove il copione è scritto tra le righe delle sanzioni americane e le ambizioni tecnologiche cinesi. Digitimes, testata taiwanese molto addentro agli ambienti dei fornitori hardware asiatici, ha acceso la miccia sostenendo che Jensen Huang starebbe preparando una joint venture sul suolo cinese per proteggere la gallina dalle uova d’oro: la piattaforma CUDA e il florido business da 17,1 miliardi di dollari maturato in Cina solo lo scorso anno.
Peccato che Nvidia abbia risposto con fuoco e fiamme, negando ogni cosa in maniera categorica. “Non c’è alcuna base per queste affermazioni”, ha dichiarato un portavoce all’indomani della pubblicazione del rumor, accusando i media di irresponsabilità per aver spacciato supposizioni come fatti.

Gli analisti di BlackRock, con il solito aplomb da “padroni universali dei portafogli”, ci ricordano che l’unica ancora di salvezza nei marosi della volatilità geopolitica è mantenere esposizione su azioni guidate dall’intelligenza artificiale, come quelle rappresentate dal fondo NYSEARCA:AIEQ.
La dichiarazione, contenuta nel loro Spring Investment Directions Report, suona come una predica tecnocratica: “aziende altamente profittevoli e con bilanci solidi sono quelle che riusciranno a navigare in questo mare agitato”. E chi siamo noi per contraddirli? In fondo, BlackRock è quel tipo di entità che potrebbe probabilmente comprare un paese a colazione.

Geopolitica: Nel teatrino tecnologico globale, mentre l’Occidente si accapiglia su etica dell’AI e regolamenti da salotto, in Cina si combatte una guerra ben più tangibile: quella per la potenza computazionale. La notizia arriva direttamente da Caijing: Tencent Holdings e Alibaba Group Holding hanno svuotato gli scaffali virtuali di ByteDance, comprandosi una bella fetta dei suoi preziosissimi chip grafici (GPU) Nvidia. E mica noccioline: parliamo di qualcosa che ruota attorno ai 100 miliardi di yuan, circa 13,7 miliardi di dollari americani. ByteDance, che già aveva stivato GPU come un contadino medievale nascondeva il grano prima della carestia, ora cede parte del suo tesoro per trarre profitto dalla fame altrui.