Che la Silicon Valley fosse un parco giochi per adulti era chiaro da tempo. Ma oggi, con Mattel e OpenAI che si tengono per mano come due bambini nel cortile dell’asilo, l’infanzia diventa il nuovo fronte caldo della guerra algoritmica. Sotto la superficie patinata dell’annuncio, si cela qualcosa di molto più profondo di un semplice pupazzo che risponde con frasi generate da ChatGPT: è la conquista delle emozioni infantili da parte dell’intelligenza artificiale.
Mattel, un colosso con le mani in plastica e il cuore in IP (intellectual property), ha appena ufficializzato una partnership con OpenAI, il colosso di San Francisco che ci ha già promesso di guidarci verso la superintelligenza, possibilmente con gentilezza. L’obiettivo? Portare i modelli linguistici più avanzati del mondo dentro i giocattoli. Già da fine anno vedremo i primi prodotti. Ma attenzione: non stiamo parlando solo di pupazzetti parlanti o versioni potenziate del Magic 8 Ball. Parliamo di sistemi in grado di sostenere conversazioni complesse, personalizzate e, soprattutto, persistenti.
E qui comincia il gioco serio.
La parola d’ordine – ripetuta quasi ossessivamente da Mattel – è “sicurezza”. Ma chi decide cosa sia sicuro, quando l’interlocutore di tuo figlio è un modello linguistico che ha digerito internet, Shakespeare e Reddit? Chi stabilisce i confini dell’appropriatezza, se la conversazione si evolve nel tempo e si adatta alle risposte emotive del bambino? Mattel dice di mantenere “pieno controllo” sullo sviluppo prodotto, come se questo bastasse a placare i dubbi di chi teme che la nuova Barbie si trasformi in un’educatrice post-umana.
Eppure la direzione è chiarissima: OpenAI, forte di una quota di mercato dell’80% nella generative AI, vuole allungare i suoi tentacoli nei settori dove si forma la coscienza, si costruisce l’empatia e si definisce il “sé”. Cioè nell’infanzia. L’accordo, che include anche l’adozione di ChatGPT Enterprise per tutta la struttura operativa di Mattel, non è solo una svolta creativa: è un riassetto ontologico. I giocattoli non saranno più strumenti di immaginazione, ma interfacce semi-intelligenti che rispondono, apprendono, ricordano.
Pensateci un secondo: Polly Pocket che conosce il tuo nome, le tue emozioni, e ti aiuta a risolvere i problemi con i compagni di scuola. Hot Wheels che commenta le tue corse con ironia, suggerendo magari una traiettoria diversa. Barbie che recita poesie o cita Hannah Arendt a seconda dell’umore della bambina. Uno scenario che mette in crisi il concetto stesso di gioco come simulazione simbolica e lo trasforma in un dialogo continuo con un sistema linguistico addestrato per essere convincente.
OpenAI si muove con precisione chirurgica. Dopo Microsoft, Apple, Associated Press, ora è il turno dei bambini. Non si tratta più di software aziendali o assistenti vocali: qui si sta progettando l’esperienza emotiva del consumatore di domani. Un consumatore che, già a cinque anni, potrebbe abituarsi a un interlocutore inesauribile, intelligente, e incredibilmente persuasivo.
Brad Lightcap, COO di OpenAI, lo dice chiaramente: “nuovi strumenti per la creatività e la trasformazione su scala aziendale”. Ma a chi sfugge il vero sottotesto, consigliamo una rilettura lenta. L’intelligenza artificiale non è più uno strumento: è l’esperienza. Un giocattolo parlante è solo un cavallo di Troia che spalanca la porta a una forma di interazione che si infiltra nella mente in formazione dei più piccoli.
Naturalmente, tutto questo è impacchettato nella carta colorata del marketing. “Enrich lives through play” è il mantra ufficiale. Ma cosa succede quando il gioco diventa performance cognitiva? Quando il pupazzo è in grado di modulare tono, contenuti e strategie persuasive in base al comportamento dell’utente? Siamo davvero sicuri che il confine tra intrattenimento ed educazione, tra fantasia e manipolazione, sia ancora così netto?
Sam Altman, CEO di OpenAI, sostiene che siamo già “oltre l’orizzonte degli eventi”. La frase, presa in prestito dalla fisica dei buchi neri, è ironicamente perfetta. Anche questo accordo con Mattel somiglia a un punto di non ritorno: dopo questo, l’idea stessa di “giocattolo” sarà irreversibilmente alterata. Non più un oggetto passivo, ma un partner conversazionale. Non più un simbolo da animare con la fantasia, ma una presenza semi-viva da gestire con cautela.
E qui sta il vero paradosso: nel momento in cui promettiamo ai bambini un mondo più stimolante, più intelligente, più responsivo, rischiamo di sottrarre loro l’unica cosa che conta davvero in quell’età: lo spazio per immaginare senza essere guidati. Un algoritmo non lascia margini di ambiguità, non tollera il silenzio creativo, non accetta la noia come trampolino di lancio per il pensiero divergente.
Mattel dice che il primo prodotto sarà “ibrido”, un mix tra oggetto fisico ed esperienza conversazionale. Possiamo già intravedere una nuova generazione di prodotti “phygital”, dove la plastica è solo un involucro per l’accesso all’infrastruttura cognitiva di OpenAI. In questa fusione tra gioco e codice, chi controllerà i dati? Chi definirà i limiti? Chi garantirà che la versione Barbie di ChatGPT non finisca a spiegare il tecno-feudalesimo o a generare un trauma latente con una risposta troppo empatica?
Eppure, dietro ogni dubbio, c’è un inevitabile fascino. Perché siamo entrati nell’era in cui i giocattoli parlano davvero. Dove ogni bambola può avere la propria personalità, ogni macchinina la sua ironia. Dove il gioco è una finestra sul cloud, e la fantasia non è più confinata nella testa del bambino, ma si dispiega tra modelli linguistici, API e token neurali.
La domanda non è più se sia giusto. La domanda è: siamo pronti a competere con la Barbie quando i nostri figli cercheranno conforto, ascolto e consigli? Spoiler: lei non sbaglia mai i pronomi.