Nel panorama odierno in cui studenti e giovani lavoratori si rifugiano nell’intelligenza artificiale per trovare risposte rapide e soprattutto prive di giudizio, si sta verificando una mutazione culturale tanto sottile quanto devastante. Non parliamo solo dell’ennesima sostituzione tecnologica di una funzione umana, ma di un vero e proprio terremoto invisibile che sta spazzando via la parte più essenziale della crescita personale e professionale: la relazione, il confronto, l’imbarazzo salutare di non sapere.
La questione non è banale, né limitata a qualche nerd timido che preferisce interpellare ChatGPT invece di chiedere un chiarimento al capo o al docente. Il fenomeno è dilagante, h24 infatti la maggior parte delle interazioni con tutor AI avvengano dopo l’orario di lavoro, in quella terra di nessuno in cui i professori smettono di essere disponibili e le macchine invece restano vigili. In pratica, gli studenti preferiscono parlare con un chatbot che definiscono “infinitamente paziente” e “immune da giudizi”, piuttosto che affrontare la temuta umiliazione del faccia a faccia umano.
Peccato che tutta questa “assenza di giudizio” rischi di trasformarsi in un’assenza di crescita. Affidarsi esclusivamente all’AI significa sì accedere più facilmente a informazioni e supporto, ma al costo atroce di perdere l’opportunità di costruire reti sociali e professionali. In un mercato del lavoro dove metà delle opportunità passa ancora attraverso le famose “conoscenze”, rinunciare a coltivarle equivale a suicidarsi professionalmente, ma con il sorriso idiota di chi crede di essere più sveglio degli altri.
Il problema tecnico poi è ancora più tragico: i chatbot, come dimostra uno studio recente del 2024, sono sempre più inclini a “allucinare”, ovvero a generare risposte totalmente inventate, ma dette con una sicurezza tale da ingannare anche l’utente più accorto.
E se prima almeno certi argomenti erano tabù per l’intelligenza artificiale, oggi anche quel freno è saltato, trasformando i bot in dispensatori di verità personalizzate, basate sui bias di chi fa la domanda. I chatbot non fanno che confermare i pregiudizi dell’interlocutore, restituendo non risposte corrette, ma quelle che vogliamo sentirci dire, una sorta di Autocomplete Mirroring.
Il dramma di questa nuova solitudine digitale si coglie ancor più nitidamente quando si entra nel merito delle “soft skills”, quelle competenze invisibili che non puoi scaricare da un server. L’AI è incapace di navigare le complesse dinamiche delle relazioni umane, quelle fatte di silenzi imbarazzanti, di sguardi, di errori di interpretazione e di riconciliazioni. Esattamente il tipo di esperienze che cementano le connessioni vere, quelle che ti fanno ottenere un lavoro o ti salvano da un errore fatale.
Più inquietante ancora è l’effetto collaterale che nessuno considera: se continuiamo a dialogare solo con le macchine, smettiamo di costruire i legami umani deboli ma vitali, quelli che secondo decenni di ricerca sociologica sono le vere autostrade verso nuove opportunità. Non si tratta di un dibattito astratto, ma di un lento avvelenamento delle fondamenta stesse della società meritocratica. Se il tuo network si riduce a un insieme di risposte automatiche, allora puoi dire addio alla crescita personale, al mentoring reale, e perfino al caso fortuito di incontrare qualcuno che cambia la tua vita.
Il vero capolavoro di questa apocalisse morbida è che le vittime non si sentono nemmeno tali. Anzi, sono convinte di essere più libere, più intelligenti, più autonome. È il trionfo della prigionia volontaria, mascherata da empowerment tecnologico. E chi dovrebbe essere il contrappeso a tutto questo? Docenti, manager, senior. Ma anche qui le cose vanno male. Se gli studenti preferiscono i chatbot ai professori, forse i professori dovrebbero farsi qualche domanda seria sul loro modo di relazionarsi agli studenti.
L’incapacità di creare ambienti sicuri per le domande umane è un fallimento educativo grave, non un semplice effetto collaterale della tecnologia.
Siamo arrivati al punto che il 70% dei dipendenti dichiara di sentirsi a disagio nel fare domande al lavoro. E allora non stupiamoci se la Generazione Z preferisce il silenzioso conforto del chatbot a un capo che considera ogni dubbio come una debolezza.
Non è un futuro immaginario. È già tutto qui. E se continuiamo a ignorarlo, non servirà nemmeno più chiederlo ai bot.