L’industria cinese dei robot umanoidi sta correndo. Ma, come spesso accade quando si corre troppo, si inciampa. O meglio, ci si dimentica qualcosa di fondamentale: l’intelligenza. E non parlo di quella strategica, geopolitica o industriale, ma proprio dell’intelligenza artificiale, quella vera, quella “end-to-end”, quella capace di far fare a un robot qualcosa senza dovergli installare ogni volta un nuovo programma come si faceva con i Nokia nel 2005.

A dirlo non è un osservatore qualunque, ma Wang Xingxing, CEO e fondatore di Unitree Robotics, il volto telegenico dietro ai simpatici umanoidi che ballano lo Yangge alla TV di Stato. Alla conferenza di Shanghai, Wang ha pronunciato parole che suonano come un pugno nello stomaco per chi, ancora oggi, crede che l’hardware sia l’anima del gioco.

La verità, come sempre, è più brutale: l’hardware è sexy, l’AI è potere. E in questo momento, dice Wang, la Cina ha robot brillanti fuori ma vuoti dentro.

Non basta più costruire macchine che si muovono in modo fluido o che sanno eseguire una danza folk durante il Capodanno. Il mercato – e soprattutto il futuro – vuole di più. Vuole robot capaci di eseguire compiti generici, senza dover scrivere ogni volta uno script diverso. Vuole macchine che capiscano il contesto, che imparino, che inferiscano. In sintesi: vuole AI integrata, fluida, trasparente, end-to-end.

E qui, inizia la caduta libera.

Il “problema” – lo dice Wang senza girarci troppo attorno – è che nessuna delle undici aziende cinesi principali che si stanno lanciando verso la produzione di massa (sei di queste promettono oltre mille unità quest’anno) possiede un sistema di AI che possa definirsi veramente unificato. Ognuna si arrangia, componendo software patchwork, come si faceva con i siti web in HTML 2.0. Uno per il camminare, uno per la presa, uno per il riconoscimento visivo. Risultato: robot che eseguono compiti specifici, ma non hanno una comprensione generale. Sono idioti funzionali, come certi middle manager nei consigli di amministrazione.

Il paradosso è che sul fronte della domanda, tutto va a gonfie vele. Wang parla di un’“ondata di ordini” e di “crescita esplosiva”. I clienti bussano, vogliono i loro robot, ne vogliono tanti, e li vogliono ora. La Cina si è già illusa una volta con il boom dei robot quadrupedi (gli pseudo-cani da pattuglia), ora rincorre la forma umanoide come se bastasse un paio di gambe per competere con Boston Dynamics o con Figure AI e i suoi investitori miliardari.

Ma qui arriva la trappola del capitalismo tecnologico: scalare senza sostanza è suicidio industriale. L’ossessione per la quantità, per i mille pezzi da produrre in catena, rischia di produrre solo scatole semoventi. La qualità della mente artificiale, quella capace di adattarsi, apprendere, connettere, non si produce a colpi di fabbrica. Non si improvvisa. E soprattutto non si copia da GitHub in una notte.

La sfida, dice Wang – e qui va riconosciuto un raro spunto di lucidità – è duplice: abbassare i costi e aumentare la durata delle macchine, certo, ma solo se queste hanno un cervello in grado di giustificare la loro forma. Oggi, la maggior parte dei robot umanoidi in Cina è ancora lontana dall’essere una piattaforma generalista. Hanno bisogno di uno script per ogni compito, come attori mediocri incapaci di improvvisare. Sono l’opposto della visione “AGI embedded” che Silicon Valley sbandiera a ogni occasione.

Curiosamente, mentre il dragone industriale spinge verso la produzione in massa, proprio lì si rivela la crepa: nessuno, nemmeno i leader di settore, ha ancora costruito una vera architettura di intelligenza generalizzata per robot. E se lo dice il CEO di Unitree – uno che vende robot, non uno che scrive articoli su Medium – c’è da credergli.

In un mercato globale sempre più spaccato tra chi costruisce hardware a basso costo e chi costruisce stack cognitivi completi, la Cina rischia di restare bloccata nel mezzo. A produrre corpo senza mente. Schiava della frammentazione software, della logica delle “app per tutto”, dell’AI a pezzi come l’arredamento IKEA.

E mentre gli Stati Uniti, l’Europa (con calma, come sempre), e perfino la Corea del Sud iniziano a parlare di robot con capacità cognitive integrate, multi-agente e adattive, la Cina si vanta di robot che sanno ballare in TV.

È questa l’AI del futuro? O solo una forma di esibizionismo algoritmico che serve a coprire l’assenza di vera innovazione cognitiva?

La provocazione finale potrebbe arrivare da un barista di Hangzhou: “Bello il robot che balla, ma se non sa neanche lavare un bicchiere senza istruzioni, è solo un giocattolo da fiera”.

E forse, per ora, non ha torto.

Quale sarà il primo gruppo cinese capace di integrare davvero un sistema AI end-to-end, come una spina dorsale digitale che permetta alla macchina di capire il mondo, non solo eseguire comandi? Chi riuscirà a creare un robot generalista che non sembri solo un pupazzo travestito da ingegnere?

In un’epoca dominata da LLM, da sistemi multi-modali e da sogni di intelligenza generale, il robot che ancora aspetta di sapere cosa fare assomiglia più a una metafora dell’industria stessa: forte, rapida, ma ancora senza direzione.

Vuoi davvero mettere in fabbrica mille robot? Prima, assicurati che almeno uno di loro sappia pensare. Anche solo un po’.