Oggi parliamo di come l’AI si spaccia per intelligente mentre si comporta come uno stagista molto obbediente, salvo poi evolversi in qualcosa che, con l’aiutino giusto, potrebbe effettivamente fregarti il lavoro. Parliamo di AI Workflows, Agenti Autonomi, e dell’oscuro ma fondamentale MCP — Model Context Protocol. Tre sigle, tre livelli di potere computazionale, una sola verità: senza contesto, l’AI è solo un automa con l’elmetto del Project Manager.

I cosiddetti AI Workflows sono la versione postmoderna delle macro di Excel. La differenza? Nessuna, tranne il marketing. Un workflow AI è uno script lineare: trigger → azione → output. Tutto preciso, tutto meccanico. Arriva un’email? L’AI la riassume, crea un task e ti manda un messaggio Slack. Bingo. L’illusione dell’intelligenza. Ma non farti fregare: è puro determinismo digitale. Nessuna decisione, nessuna capacità di adattamento, solo sequenze codificate. È come parlare con un chatbot del 2004, ma con un’interfaccia più figa.

Ora, appena saliamo di livello e incontriamo gli AI Agents, la storia cambia. Un agente non esegue comandi. Ti ascolta, decide, agisce. Se gli dici “organizzami la giornata”, non si limita a spalmare eventi sul calendario come un Workflow qualsiasi. Scava nel tuo Google Calendar, consulta il meteo (perché sa che non vai in palestra se piove), considera quanto hai dormito (via app di tracking del sonno), e magari ti infila anche una mezz’ora di mindfulness tra una call e l’altra. L’agente ha un obiettivo e lo raggiunge. Da solo. Come il bravo manager che non ti chiede dove siano salvati i file, ma li trova e li collega in modo coerente. E qui inizia il brivido.

Ma poi c’è l’MCP, il Model Context Protocol. La differenza tra un agente “smart” e uno veramente autonomo. Senza MCP, anche il miglior agente è un cieco in una biblioteca: ha cultura, ma non vede nulla. L’MCP è il pass-partout, il coltellino svizzero dell’autonomia digitale. È ciò che permette all’agente non solo di “vedere” le applicazioni che usi (Notion, Slack, Calendar, Trello, Perplexity, ecc.), ma anche di dialogarci in tempo reale. Non si tratta solo di avere accesso ai dati, ma di avere contesto dinamico. Stato + intenzione + storico = capacità di ragionare tra sistemi. E questo cambia tutto.

Con l’MCP in campo, l’agente non si limita più a chiedere “quando hai tempo libero?”, ma capisce perché non ce l’hai, cosa potresti spostare, e se davvero ti conviene farlo. L’MCP è il middleware del futuro: un protocollo di coscienza operativa, un’API per la strategia, un layer semantico che trasforma il semplice flusso in una mappa adattiva. Ed è qui che l’intelligenza artificiale diventa interessante. Non perché “pensa”, ma perché decide con consapevolezza contestuale. Una bella differenza.

Una curiosità da bar dei daini, ma di quelle che fanno riflettere: l’AI di oggi, senza MCP, è come un sommelier cieco e astemio che legge l’etichetta del vino e te lo serve sulla base del font usato. L’MCP, invece, è il sommelier che apre la bottiglia, annusa, assaggia e ti consiglia se abbinarlo a un pecorino stagionato o a una chiamata con il tuo capo alle 8 del mattino. Non è poesia, è semantica connessa.

Ovviamente, tutto questo ha un prezzo. Perché quando un sistema riesce a coordinare app, storici, priorità, calendari e obiettivi… chi controlla l’agente? Chi decide cosa conta davvero? Sì, è sempre il solito dilemma: autonomia o controllo. E qui entra in gioco la governance, il prompt injection, le backdoor etiche e gli override aziendali. Ma questo è un altro articolo.

In fondo, il problema non è mai l’AI. È l’umano che crede di aver capito come funziona.

Benvenuti nell’era dei sistemi che non chiedono più “cosa devo fare?”, ma “perché dovrei farlo proprio ora?”. Se non vi spaventa, non avete capito abbastanza.