Il CEO che sussurrava all’AGI: tra manipolazione, bugie e miliardi
Sam Altman non è un eroe, non è nemmeno un cattivo da operetta. È un prodotto perfetto del sistema che ha costruito e che adesso gestisce come un direttore d’orchestra in un teatro pieno di strumenti scordati e musicisti terrorizzati. In “The Optimist”, Keach Hagey fa un lavoro chirurgico – ma senza anestesia e ci serve su un vassoio d’argento la biografia non autorizzata (ma documentata fino all’ossessione) di uno degli uomini più potenti e ambigui del XXI secolo. Altman emerge come un algoritmo umano: ottimizzato per il potere, programmato per la manipolazione, compilato senza debug etico.
Altman non è cambiato. È nato così. A sei anni guardava i circuiti come altri i cartoni animati. A diciannove scriveva liste con “AI” in cima come altri scrivono “trovarsi un lavoro”. La sua narrativa è lineare perché è disumana: come una rete neurale che evolve senza mai sbagliare obiettivo. Hagey non lo accusa mai esplicitamente, ma lo descrive con una precisione tale che ogni lettore medio dotato di una minima intelligenza emotiva (quella che a Sam manca) capisce che stiamo parlando di un manipolatore di prim’ordine, borderline sociopatico, ma vestito da ottimista.
A Loopt, Altman mentiva. A Y Combinator, Altman disertava. A OpenAI, Altman controllava come un re assoluto nascosto dietro la cortina fumogena della missione “per il bene dell’umanità”. Ma la realtà che Hagey racconta è quella di un’umanità ridotta a stakeholder secondario, utile solo come paravento filantropico per un business costruito su NDA, bugie e lobbying preventivo. Altro che benefattori della Silicon Valley: qui siamo più vicini a Machiavelli con accesso root ai server.
L’episodio del tentato colpo di stato del board nel novembre 2023 viene svelato con un ritmo da thriller: Murati e Sutskever, non esattamente due dissidenti marxisti, cercano di farlo fuori perché letteralmente non si fidano più di nulla di quello che dice. Lo accusano di gaslighting strategico, di doppiezza metodica, di creare conflitti tra i dirigenti per mantenere il controllo. Il tutto mentre Altman si muove con il sangue freddo di chi sa di non lasciare mai una mail compromettente. Altman non ha pistole fumanti. Non ne ha bisogno. Ha già riscritto il copione prima che tu arrivi al secondo atto.
Hagey riesce nell’impresa rara di raccontare un uomo senza mitizzarlo, ma nemmeno demonizzarlo. Ci mostra un Sam Altman che non ha mai fatto nulla di apertamente illegale, ma che ha costruito la sua carriera sulla disonestà incrementale: un pixel alla volta. È l’arte della mezza verità, del messaggio ambiguo, del “non ho detto esattamente questo”, dell’ambiguità deliberata elevata a metodo di governo. Come i bug irrisolti in un sistema operativo che però funziona finché nessuno lo spegne.
Il risultato è un libro veloce, denso, essenziale. “The Optimist” è anche una cronaca parallela della Silicon Valley che ha abbracciato l’ottimismo come copertura ideologica per il capitalismo più predatorio. Altman è l’incarnazione della tech elite 2.0: non più i nerd idealisti di Google, ma i tecnocrati post-etici che sorridono mentre scrivono algoritmi che riscrivono le regole della civiltà. Hagey ci fa vedere questo passaggio senza mai urlare. Non serve. Bastano le testimonianze, le mail, i comportamenti reiterati.
La vera genialità di Altman non è l’intuizione tecnica, ma l’incredibile capacità di convincere tutti che lavora per il bene dell’umanità mentre negozia segretamente con Microsoft e accumula leve di controllo come un dittatore illuminato. E se il suo team dirigente finisce in terapia o al bordo dell’esaurimento, poco importa: l’AGI non aspetta nessuno, tranne lui.
Quindi sì, alla fine, il consiglio di amministrazione aveva ragione. Altman non era “costantemente sincero”. Ma il vero problema è che questo è esattamente il tipo di CEO che il sistema desidera. Uno che fa sembrare la distopia una feature, non un bug.
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