Benvenuti nell’era del browser che pensa per voi. Google ha ufficialmente piazzato il suo assistente Gemini dentro Chrome, annunciandolo con entusiasmo da palco durante il Google I/O. Sì, proprio lì, tra mille slogan e demo studiate al millisecondo. L’idea? Un browser che non si limita più a “navigare”, ma inizia ad “assistere” con quella premura un po’ inquietante di chi vuole fare tutto al posto tuo.
Per ora, Gemini in Chrome fa due cose. Ti riassume quello che stai leggendo e ti chiarisce ciò che non capisci. Tipo un tutor invadente per adulti digitalmente pigri. Funziona così: mentre sei su una pagina qualsiasi, ti appare una stellina scintillante — perché, evidentemente, una semplice icona non era abbastanza “magica”. Clicchi, si apre una finestrella fluttuante, e lì parte il teatrino: puoi chiedere a Gemini cosa cavolo stai guardando, e lui te lo spiega. Oppure ti fa un riassuntino con tono da barista saccente, quello che ti spiega come funziona il vino biologico mentre versi il Tavernello.
Il tutto, ovviamente, all’insegna dell’intelligenza artificiale generativa, la keyword sacra che ormai giustifica ogni cosa, dal tostapane conversazionale fino alla guida spirituale per startup. E dietro questa mossa, una visione più ampia: Gemini che ti accompagna tra tab multipli, che naviga al posto tuo, che si prende cura della tua esperienza web. Ovvero: un browser con sindrome da badante digitale.
Certo, le demo fanno il loro sporco lavoro. Charmaine D’Silva, product manager di Chrome, ha mostrato Gemini mentre riassumeva le caratteristiche di un sacco a pelo su REI. Poi l’ha paragonato a un altro sacco su un sito concorrente, e ha sputato fuori una tabella comparativa degna del peggior PowerPoint. Infine, ha chiesto a Gemini se quel sacco andasse bene per campeggiare nel Maine. Risposta: una sintesi tra la scheda prodotto e informazioni pescate dal web.
Tutto molto utile, in apparenza. Ma anche pericolosamente passivo. Perché mentre Google promette assistenza, quello che sta davvero vendendo è una disintermediazione cognitiva. Non serve più leggere, non serve più confrontare. Non serve più pensare.
Per i più arditi, in futuro Gemini potrà anche navigare il sito per te. Tipo: “vai agli ingredienti della ricetta”, e l’AI scrolla, salta e ti porta dove vuoi. Perfino la conversione da cup a grammi te la smazza da solo. Così puoi finalmente cucinare i muffin vegani senza neanche sapere cos’è una cup.
È qui che la faccenda si fa interessante. Perché quello che Google sta davvero costruendo non è un semplice upgrade di Chrome, ma un intermediario cognitivo pervasivo. Gemini vive sopra il browser, si infila nel flusso delle tue azioni digitali, e risponde per te. Una sorta di copilota esistenziale, o peggio: un algoritmo che si mette tra te e la realtà.
Lo chiamano AI productivity tool. In realtà è un meccanismo di intelligenza delegata: più comodo, certo. Ma anche più disarmante. Un browser che si occupa del confronto tra due prodotti è utile. Un browser che ti dice se vale la pena leggere una pagina è un problema. Perché si sostituisce al tuo giudizio. E il giudizio, lo sappiamo, è una delle poche cose che ci restano.
La parte più ironica? Gemini è ancora limitato a due tab. Roba da versione 0.8 beta. Però Google promette che a breve si allargherà. Si espanderà tra le tab, ti seguirà mentre navighi, ti “assisterà” mentre compri, leggi, cucini, magari mentre prenoti un viaggio o scegli un’università. Sì, perché il sogno vero è che Gemini diventi la tua UI del mondo — la tua lente AI sulla realtà digitale.
E no, non sarà gratis. Disponibile solo per maggiorenni, in inglese, su Windows e macOS, e solo per chi ha l’abbonamento AI Pro o Ultra. Oppure chi si avventura nei canali Beta, Dev o Canary di Chrome. Per tutti gli altri, resta il vecchio metodo: leggere le cose con i propri occhi e usare il cervello.
Ma chi ha ancora voglia?
In fondo, questa è l’epoca dell’intelligenza sintetica come stampella. Gemini è lo specchio di una cultura digitale che non vuole più capire, ma solo ottenere. Un’epoca in cui la conoscenza diventa un servizio on demand, il pensiero un optional, l’attenzione un costo. Il browser non è più un passaggio, ma un filtro. E in quel filtro, lentamente, svanisce l’autonomia.
Qualcuno potrebbe dire che è solo un assistente. Come Siri, Alexa, o Copilot. Ma la differenza è sottile e sostanziale: Gemini vive dentro il browser. Dentro il luogo dove il tuo pensiero incontra il mondo. Non è una voce che lanci a caso. È un layer permanente sulla tua esperienza digitale. Invisibile, ma persistente. Con la stessa silenziosa invasività di un plugin che non hai mai installato, ma che è già lì, in agguato, pronto a rispondere per te.
Ah, dimenticavo: per ora niente versione mobile. Ma “ci stanno pensando”. Cioè, tradotto dal linguaggio Google: appena troviamo un modo per ficcarcelo dentro senza fare incazzare mezzo mondo, lo facciamo.
Nel frattempo, possiamo ancora scegliere. Possiamo ancora usare il browser come strumento, e non come stampella. Possiamo ancora leggere, comparare, pensare. Ma dobbiamo volerlo. E ogni volta che clicchiamo quella stellina brillante, ogni volta che chiediamo “Gemini, spiegami questa pagina”, stiamo rinunciando un po’ alla fatica. E un po’ anche a noi stessi.