In un’Europa che si vanta della propria trasparenza istituzionale come un vegano al primo appuntamento, la realtà continua a sgretolare la facciata con la costanza di una goccia d’acido su marmo. Lo scandalo che sta investendo il Parlamento Europeo con al centro Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni, e cinque eurodeputati sospettati di corruzione è la nuova puntata della tragicommedia continentale che mescola diplomazia, tecnologia e lobby al sapore di spring roll.

La parola chiave qui è corruzione, ma quella vera, non quella da manuale scolastico: parliamo di biglietti per partite di calcio, regali ben impacchettati, viaggi, cene e favori che, per quanto “eccessivi” secondo la procura belga, sono ormai routine mascherata da networking strategico. D’altronde, che male c’è a guardarsi Anderlecht–Ludogorets dalla tribuna VIP mentre qualcuno ti sussurra all’orecchio i vantaggi dell’infrastruttura 5G made in Shenzhen?

Partiamo dai nomi, ché in queste storie contano più dei fatti: Daniel Attard, Nikola Minchev, Salvatore De Meo, Fulvio Martusciello e Giusi Princi. Tre italiani, un bulgaro, un maltese, e una causa comune: essere nel mirino della giustizia belga per aver, a vario titolo, promosso gli interessi di Huawei all’interno dell’Europarlamento. Non parliamo solo di simpatia ideologica o fervore neoliberista, ma di un vero e proprio sistema di influenza che, secondo la procura, si muoveva dal 2021 “regolarmente e con discrezione”. Più che lobbying, una raffinata coreografia diplomatica, un valzer tra emendamenti e sushi all inclusive.

Huawei, prevedibilmente, nega tutto con la compostezza di chi ha imparato da anni a scrivere comunicati stampa: “Zero-tolerance policy verso la corruzione”. Una frase tanto anodina quanto prevedibile, buona per ogni occasione, dal furto di brevetti al finanziamento occulto di campagne europee. Eppure, tra le pieghe delle indagini e delle dichiarazioni semi-confessorie, il sospetto si fa denso come nebbia padana: quanto pesa davvero Pechino nei palazzi di Bruxelles?

Il nodo, naturalmente, è la tecnologia. Non si tratta di banali tangenti da terzomondismo anni ’90, ma di una guerra geopolitica che si combatte a colpi di cavi in fibra, antenne 5G e contratti infrastrutturali da miliardi. L’Unione Europea, nel tentativo schizofrenico di affrancarsi dagli USA senza farsi ingoiare dalla Cina, si ritrova invischiata in un’ipocrisia sistemica: demonizzare Huawei in pubblico, invitarla nei palazzi con il tappeto rosso in privato. Perché se i dispositivi cinesi costano meno e funzionano meglio, a qualcuno viene l’idea geniale: perché non approvarli comunque? Magari tra un goal e l’altro.

Già nel 2021 il Parlamento Europeo aveva adottato risoluzioni dure contro la penetrazione tecnologica cinese, sostenendo che Huawei rappresentasse un rischio per la sicurezza nazionale. Ma poi arrivano le lettere. Quelle firmate da Martusciello e compagnia, in cui si critica il blocco del mercato europeo per i giganti asiatici. Lettere che odorano di pragmatismo economico, ma che oggi sembrano più simili a cambiali politiche firmate in cambio di benefit ben meno ufficiali.

Il dettaglio tragicomico? I coinvolti si difendono con una miscela di candore infantile e amnesia selettiva. Attard giura di non sapere nemmeno che fosse Huawei a offrirgli il biglietto VIP per lo stadio. “Pensavo fosse un invito personale” dice. Un classico. Come quei regali a Natale da parte dello zio sconosciuto che casualmente produce microchip. Princi, invece, nega tutto e rilancia: “Quel giorno ero alla festa della scuola di mia figlia, ho le prove”. Alla fine, tra una tesi e l’altra, il Parlamento dovrà decidere se revocare l’immunità ai cinque. Ma nel frattempo la credibilità dell’istituzione è già finita sotto sequestro.

Il caso, ribattezzato “Huaweigate” da qualche redattore pigro, rischia di far saltare anche i fragili tentativi di riavvicinamento tra Bruxelles e Pechino. Appena qualche settimana fa, la Cina aveva deciso di togliere le sanzioni a europarlamentari scomodi nella speranza di un disgelo. Peccato che l’Europa, come sempre, parli con mille voci, tutte dissonanti. E ora, anche con qualche intercettazione ambientale in più.

Se il passato recente ci ha insegnato qualcosa e dubito è che i grandi scandali europei nascono sempre nello stesso modo: un incontro informale, un viaggio, una cena, una stretta di mano, poi qualche email criptica, e infine la solita “espressione di interesse” che diventa legge. E il cerchio si chiude. Questa volta, però, il sospetto è che ci sia una vera e propria organizzazione criminale alle spalle, con tanto di riciclaggio e falsificazioni, secondo quanto trapelato dalle indagini. Non una marachella, ma un’operazione sistemica.

Ma tranquilli, tutto sotto controllo. Le istituzioni reagiranno. Faranno commissioni. Indagini interne. Audizioni. Si scriveranno report. Poi i documenti spariranno nei cassetti e i nomi torneranno a brillare sulla lista dei candidati alle prossime europee, magari con un nuovo slogan sulla trasparenza.

E intanto, là fuori, ci sono reti 5G da montare, accordi commerciali da firmare, e milioni di cittadini digitali che continuano a navigare su dispositivi prodotti da quelle stesse aziende cinesi che qualcuno giura di combattere mentre ne difende gli interessi da un palco istituzionale. Magari con la sciarpa dell’Anderlecht al collo.