Lo chiamano “content commerce” o “shoppable content”, ma la verità è che ci stiamo avvicinando alla fine della distinzione tra contenuto e pubblicità. Shopsense AI, nuova startup fondata da ex cervelli di Amazon e Klarna, non vuole venderti una nuova esperienza televisiva. Vuole venderti direttamente la maglietta che hai appena visto indosso a un concorrente di un reality. E sì, lo fa con l’Intelligenza Artificiale. Ovviamente.

Chiariamoci: gli influencer guadagnano sulle affiliazioni da più di dieci anni, mentre le emittenti televisive, quelle vere, sono rimaste ferme con la pubblicità da rotocalco. Spot lineari, pianificazione, GRP, break pubblicitari da 30 secondi e misurazioni stile preistoria Nielsen. Loro parlano ancora di “prime time”. Intanto TikTok ti vende l’eyeliner durante un balletto.

Shopsense vuole ribaltare tutto. Ha capito che la televisione tradizionale può ancora avere un potenziale commerciale enorme, purché la si renda cliccabile. O meglio: scansionabile. Se sei davanti a un programma, e noti qualcosa che ti piace — un paio di scarpe, una borsa, persino un set di tazze — l’idea è che tu possa puntare il telefono verso lo schermo, scansionare un QR code e comprare al volo. La stessa esperienza compulsiva dell’e-commerce, solo travestita da intrattenimento.

Non serve una scienza per capire che dietro c’è un sistema di affiliazione vecchio come l’internet: Shopsense prende la commissione, la divide con l’emittente, e nel frattempo ti vende l’illusione che “hai scoperto da solo” quel prodotto. E ti senti pure sveglio, trendy, reattivo.

La novità? Ora c’è l’IA. Sì, perché nella prima versione erano ancora i poveri content manager delle emittenti a dover inviare le scene salienti a Shopsense per dire: “qui c’è un bel momento da monetizzare”. Ora invece Quinn & co. si prendono direttamente l’intera stagione del programma, la infilano dentro al loro algoritmo, e la macchina decide quali spezzoni hanno valore commerciale. Come? Riconoscimento visivo, confronto con un miliardo di prodotti e selezione automatica dei best match da proporre all’utente. Un Tinder per le cose che non sapevi di voler comprare, ma ora vuoi disperatamente.

Il punto chiave non è tecnologico. È culturale. Perché il vero cambio di paradigma è che non serve più rendere interattiva la televisione, ma solo rendere “comprabile” l’esperienza televisiva su un secondo schermo. Il telefono è il vero terminale di conversione. La TV rimane passiva, il consumo attivo avviene altrove. E questa è una brillante fuga dalla trappola tecnologica del “fare tutto on-screen” nei televisori, un fallimento che la NBC sta ancora cercando di rivendere attraverso partnership con LG e la sua smart TV di quartiere.

A Quinn e al suo team non interessa se guardi un programma su Pluto TV, su YouTube TV o su una trasmissione lineare via antenna (sì, esistono ancora). A loro interessa che tu abbia un secondo schermo e un dito nervoso pronto a scannerizzare. Lo chiamano “ubiquitous commerce activation”. In pratica: tu guarda pure dove ti pare, basta che poi compri da qui.

Non manca l’ambizione di scala. Con 24 persone e 1.250 retailer già onboard, Shopsense sta costruendo un’infrastruttura potenzialmente letale per l’advertising tradizionale. Il product placement non è più solo branding, diventa conversione misurabile. Addio a “share of voice”, benvenuti “click-through rate” e ROAS.

Il problema? Le televisioni non sono abituate a ragionare in questi termini. Hanno ancora il feticcio dell’audience aggregata, mentre qui si parla di utenti attivi, di singoli journey, di sessioni calde da monetizzare in tempo reale. L’idea di vendere un paio di scarpe nei 4 secondi in cui inquadrano un concorrente è rivoluzionaria… ma solo per chi è rimasto al marketing del 1998.

Nel frattempo BuzzFeed, che non ha più nulla da perdere e vive solo grazie all’engagement del digitale, è tra i primi a testare il sistema. Perché? Perché sa benissimo che il contenuto senza conversione oggi è solo vanity. E la vanità, si sa, si veste alla moda.

Qualcuno potrà dire che si tratta dell’ennesimo tentativo di commercializzare l’intrattenimento. Vero. Ma stavolta lo fanno con l’efficienza di una macchina. E non stiamo parlando di IA generativa stile barzelletta da LinkedIn, ma di tecnologia costruita da gente che ha messo su Amazon Fire TV Ads e gli shopping prompt di Alexa. Qui la parola chiave non è “innovazione”. È “monetizzazione”.

Nel mondo reale, mentre i network si arrovellano per trovare un modo di attrarre i Gen Z con format pseudo virali, Shopsense gli vende la cover del telefono vista in una serie canadese su Bell Media. E chiude una partnership.

In fondo, è il capitalismo degli oggetti desiderabili. E per farlo funzionare basta un QR code.

Ma attenzione: quello che sembra semplice è in realtà un sistema complesso. Gli editori sognano ancora un mondo in cui con un solo click i contenuti diventano shoppable ovunque, su ogni piattaforma. Ma i tecnici sanno che è una distopia ancora lontana. Interoperabilità, formati proprietari, restrizioni delle piattaforme FAST e chiusura dei sistemi operativi TV rendono il tutto tecnicamente incasinato. Ma se bypassi l’hardware, e monetizzi via mobile, hai risolto metà del problema.

La verità? Non serviva più tecnologia. Serviva meno rispetto per le regole non scritte della TV. E più voglia di monetizzare l’impulso. Il retail therapy, in fondo, è il nuovo binge watching.

E se nel prossimo episodio il protagonista cambia camicia, ti serve solo un altro QR code.