C’era un tempo in cui i CEO delle tech company erano rockstar. Salivano sul palco con il microfono in mano, rollavano slide come se fossero profezie e guidavano aziende con un misto di carisma, follia e visione distopica del futuro. Ora? Ora ci mandano il pupazzo. Letteralmente.

Klarna ha deciso che Sebastian Siemiatkowski, il suo fondatore, è sostituibile. Non da un vicepresidente, non da un CFO col bracciale in caucciù e l’ossessione per i fogli Excel, ma da un avatar AI. Un pupazzo digitale, che legge i risultati trimestrali con il tono piatto di chi ha imparato l’intonazione guardando tutorial su YouTube girati da un frigorifero. La stessa cosa l’ha fatta Zoom, che per paradosso ha usato il proprio prodotto per sostituire la carne viva del suo CEO con un suo gemello virtuale.

Così la keyword è chiara: avatar AI. E le semantiche che ci danzano attorno sono altrettanto nette: earnings call e digital twins. Inutile girarci intorno: qui non si tratta solo di usare l’AI per automatizzare, ottimizzare o persino sorvegliare. Si tratta di smaterializzare la leadership, come se fosse una funzione opzionale. E questo è un passaggio culturale epocale, ma pure terribilmente triste.

La narrativa ufficiale è quella della efficienza. Klarna ha già tagliato posti di lavoro grazie all’intelligenza artificiale, e ora si vanta di poter risparmiare anche i minuti (e i neuroni) del suo CEO. Il messaggio subliminale è potente: se posso sostituire me stesso con una copia generata da macchina, posso sicuramente sostituire te, impiegato medio, con un prompt ben scritto. Questa è la nuova cultura aziendale 4.0: sei un token nel flusso di dati, e se non performi al livello di ChatGPT, beh… il tuo badge si disattiva da solo.

Poi c’è l’ironia cosmica. Eric Yuan, CEO di Zoom, dice di “amare il suo avatar AI”. È l’equivalente moderno del barone che si innamora del suo specchio, ma uno specchio che ti risponde, ti copia e ti sostituisce. Una specie di selfie perpetuo che parla a nome tuo. Cosa c’è di più narcisistico – o disperato?

Il contesto economico aiuta a spiegare il perché di questa scelta surreale. I mercati non vogliono più storytelling: vogliono trimestrali, margini, previsioni. E se un avatar può sputare i numeri senza sbavature, senza tentennamenti umani o imbarazzi verbali, tanto meglio. Il CEO in carne e ossa diventa un rischio reputazionale: potrebbe dire qualcosa di “umano”, tipo ammettere una difficoltà o – orrore! – prendersi una responsabilità.

La verità è che l’AI-first è diventata un’ideologia. Non si tratta più di strumenti utili, ma di fede cieca nell’automazione come panacea. Si parte con i customer service, si passa al marketing, poi agli HR… e infine ai C-level. Non c’è limite: se la voce è replicabile, se il volto è simulabile, perché dovremmo accettare l’imperfezione del CEO vero? L’AI diventa così il CEO ideale: non dorme, non sbaglia, non ha opinioni personali, non chiede stock options.

C’è poi un altro livello di cinismo. L’adozione di avatar AI in contesti ad alta esposizione pubblica, come gli earnings call, non è solo una questione di tech fetish. È una dichiarazione di potere. Significa: abbiamo così tanta tecnologia e controllo da poterci permettere di non esserci. È lo stesso spirito con cui Elon Musk manda tweet programmati mentre dorme, o Bezos lancia razzi mentre i suoi magazzinieri si rompono la schiena.

Un giorno forse ci racconteranno che anche i board meeting avvengono tra avatar, che i comitati di investimento si riuniscono in ambienti 3D con cloni AI che votano algoritmicamente, e che le IPO sono decise da modelli predittivi generativi. E sai cosa? Lo faranno dicendo che “è più efficiente”. Intanto, tu investitore, ti dovrai accontentare di un CEO che ti guarda con occhi finti e ti rassicura con una voce sintetica. È un “deepfake consensuale”, ma comunque una parodia.

Da questo teatrino emerge un quesito molto meno tecnico e molto più filosofico: cosa resta del leader, se lo riduci a un output video generato da prompt? La risposta è brutale: niente. Se tutto è delegabile all’AI, allora il carisma, la responsabilità, il rischio – tutto ciò che rende un leader degno di questo nome – evapora. Non è più un uomo al comando. È una skin animata con un copione.

Alla fine, questa corsa verso la sostituzione digitale dell’identità dirigenziale è il canto del cigno di un capitalismo che si sta denudando. Il sogno di molti VC è avere aziende senza dipendenti, senza costi fissi, senza emozioni. Solo codice, avatar, prompt. E magari, un giorno, anche senza consumatori veri. Solo bot che comprano da bot.

E mentre guardiamo questi CEO proiettarsi nei loro simulacri, viene da pensare che forse l’AI non sta solo automatizzando il lavoro. Sta automatizzando la farsa del potere. Quella che ci faceva credere che dietro ogni decisione ci fosse almeno una coscienza. Invece no: solo un rendering 3D e un paio di filtri.

Sì, tecnicamente impressionante. Ma che tristezza.